Pirati Dei Caraibi: La Vendetta Di Salazar

Pirati Dei Caraibi: La Vendetta Di Salazar

Questa è la strana storia di come la Disney, anni fa, uccise uno dei franchise più redditizi del suo portafogli di titoli cercando di salvarlo e di come la stessa Disney lo fece risorgere dalle ceneri utilizzando strategie che avrebbero ucciso qualsiasi saga su cui erano stati investiti milioni di dollari.

È una bella storia, anche se parecchio paradossale, lo riconosco.

È il 2007 quando il meccanismo si inceppa. Pirates Of The Carabbean: At World’s End dovrebbe essere il capitolo finale della saga che ha fatto diventare Johnny Depp l’idolo delle ragazzine e che ha salvato la carriera di Orlando Bloom dandogli qualcosa per pagare il mutuo di casa dopo il terzo Lord Of The Rings, ma in realtà non fa altro che far ripiegare il franchise su sé stesso. Si parla troppo, si combatte poco, si fa troppo affidamento sul solo Jack Sparrow per movimentare le sequenze comiche ma, soprattutto, il personaggio finisce per sclerotizzarsi e con lui l’intero sistema narrativo esplode nel momento in cui capisci che il meccanismo “Jack fa il doppiogioco con Davy Jones per poter mettere le mani sul suo cuore, ma nel frattempo ama Elizabeth e per questo fa il triplo gioco per proteggere Will che al contempo lavora con il commodoro per incastrare Jack…che al mercato mio padre comprò” non funziona più, è diventato la parodia di sé stesso e, soprattutto, non può sostenere da solo tutto il film. 

At World’s End si salva perché alla fine il trittico Bloom/Knightley/Depp funziona splendidamente e perché si caratterizza per uno degli ultimi atti più belli del cinema d’avventura contemporaneo, con quel combattimento tra decine di navi nell’occhio del ciclone che è un piacere per gli occhi. Il punto, tuttavia, è che il castello di carte sta comunque crollando e c’è poco che si possa fare per fermare l’inevitabile. In questo senso, On Stranger Tides non è solo l’ultimo capitolo del franchise (finora) ma si pone anche come pietra tombale di un sistema che se non fosse caduto preda della megalomania sarebbe stato un gioiellino di capacità imprenditoriale e creativa oltreché come episodio che raccoglie, in fondo, il peggio della saga dei Pirati Dei Caraibi.

Più che per l’eccessiva verbosità e lentezza di fondo che lo caratterizza, On Stranger Tides passa alla storia per essere il primo film del franchise senza la presenza di Keira Knightley ed Orlando Bloom. Il sistema tripartitico dei personaggi principali si spezza ed una verità che nessuno ha ancora affrontato concretamente, forse perché troppo terribile da accettare, comincia a fare capolino da sotto la superficie: Johnny Depp è da anni in una fase della sua carriera in cui riesce a funzionare solo quando il suo stile attoriale viene appoggiato e rilanciato da altri colleghi che condividono la scena con lui. Pirati Dei Caraibi è una saga su Jack Sparrow, Will Turner ed Elizabeth Swann, senza uno dei tre personaggi il sistema comincia a perdere colpi e finisce per ricadere su sé stesso, avendo come conseguenza un Johnny Depp che si aggira spaurito sulla scena impegnato in gag o scambi di battute fiacche e prive di grinta, quasi viaggiasse con una sorta di pilota automatico inserito.


Alla Disney, almeno nel caso di On Stranger Tides, non sembravano averlo capito, c’era, in loro, una strana e malcelata sicurezza che li portava a credere che fintanto che la loro star fosse rimasto della partita il film sarebbe sopravvissuto, il problema è che non avevano (ancora) fatto i conti con le ripercussioni che la loro sicurezza avrebbe avuto sul mercato. Il filmfloppa, pesantemente, al botteghino ma, cosa ben peggiore, non fa breccia nel cuore degli spettatori. È una pellicola incolore, insapore, girato svogliatamente da un regista, Rob Marshall, bravo ma inadatto al concept dei Pirati Dei Caraibi. Ci troviamo di fronte ad un film che non ha scene memorabili al suo interno, che non ha battute-tormentone che gli spettatori saranno portati ad imparare a memoria, un film che, in sostanza, non è altro che un pallido ricordo di ciò che il franchise era anni fa, una pellicola che paga lo scotto di essere stata partorita dalla supponenza e dalla sicumera di produttori e creativi.

E allora, se è vero che è stata una sorta di variante contemporanea della Iubris ad aver ucciso una saga promettente, forse, procedendo per assurdo, un buon modo per riattivare il franchise, per far risorgere la fenice dalle sue ceneri, consiste nel progettare un ipotetico nuovo film muovendosi sul versante opposto dello spettro. Bisogna togliere, anziché aggiungere, riavvicinarsi alla materia del racconto con semplicità, tentando di tornare a quello spirito avventuroso che l’ha fatta da padrone nei primi film e che ora sembra perduto, eliminando al contempo tutto il superfluo, tutto il didascalismo, tutte le parole, letteralmente le linee di dialogo, che non servono. In sostanza, per ricollegarci all’inizio, bisogna procedere facendo tutto ciò che non si dovrebbe fare quando si lavora ad un blockbuster. È una follia ma, signori, magari funziona!

Ed in effetti, funziona. La Vendetta Di Salazar nasce all’esatto punto d’incontro tra l’indie ed il blockbuster. Ha in sé la forza ed il “marchio di fabbrica” dei prodotti Disney (oltreché gli stilemi tipici della saga di cui fa parte), ma al contempo, in regia ci sono due registi danesi indipendenti che finora si sono fatti conoscere per un film sul viaggio di una nave vichinga girato in mezzo al mare con un budget irrisorio ed una troupe microscopica. È abbastanza chiaro, se sai dove guardare, che anche il budget stanziato dalla produzione è di gran lunga più contenuto rispetto ai capitoli precedenti. In sostanza, alla Disney stanno mettendo in pratica quello che finora abbiamo ipotizzato. Stanno creando uno spazio di lavoro costruito appositamente per evitare che la situazione esploda e sfugga al controllo creativo come nei film precedenti: da un lato limiti il budget, dall’altro lo dai in mano a due registi nutriti dal circuito indipendente, capaci di tirare fuori il meglio da un progetto anche se questo stesso progetto è stato finanziato a suon di specchietti e perline. Non solo. In conseguenza a tutto ciò è chiaro che da questo sistema è tra l’altro escluso un uso smodato della spettacolarità, dell’effetto speciale spicciolo e fine a sé stesso. Tutto dunque torna a giocarsi sugli elementi cardine di qualsiasi progetto cinematografico, il racconto ed il sistema di personaggi. Non si può scappare, con queste premesse o quantomeno tenti di creare un film effettivamente valido o fallisci e vai a casa e la cosa più bella è che in questo caso sembra che tutto il team creativo alle spalle del nuovo Pirati Dei Caraibi non abbia fatto un passo indietro, anzi, pare abbia deciso di partire alla carica e di attaccare.

La Vendetta Di Salazar potrebbe funzionare benissimo come un reboot dell’intera saga, o addirittura come un remake indiretto del primo film. A nutrire il tessuto vitale del quinto capitolo del franchise di Jack Sparrow tornano prepotentemente due degli elementi che contribuirono a definire la mitologia (oltreché il successo), del primo film. Ci troviamo di fronte ad una pellicola che torna profuma nuovamente di mare e di morte, in sostanza. Si è deciso, saggiamente, di far respirare il tessuto narrativo, di tornare al grande oceano e ad una ricerca, una caccia al tesoro, che ha più di un punto di contatto con la ricerca di Elizabeth e del medaglione nel primo film, piuttosto che chiudere il racconto negli umidi appartamenti dei capitani di turno, impegnati in contrattazioni, inganni, doppi o tripli giochi insieme ai protagonisti.

Al contempo, lo script torna a flirtare con una persistente, seppur mitigata, atmosfera inquieta e straniante. Il capitano Salazar è un morto che torna alla vita, nutrito d’odio e rabbia contro coloro che lo hanno condannato a vivere in un limbo perenne. Ancor meglio, egli è un essere in continuo disfacimento, che sta perdendo l’uso della parola e che passa il tempo a vomitare una strana brodaglia nera. Si tratta di un personaggio, di nuovo, vicino alle atmosfere del primo film (dopotutto, ricorda il destino del capitano Barbossa, condannato a diventare uno scheletro a contatto con la luce della luna piena), e tuttavia, egli è privo di quell’alone grottesco, quasi ridicolo, che caratterizzava il suo predecessore. L’ultimo episodio del franchise sembra quindi modellarsi attorno ad un inedito (ma quanto mai gradito) “ritorno all’ordine” e all’equilibrio. Equilibrio nell’utilizzo degli effetti speciali, che non sono più soverchianti rispetto al narrato e che, cosa fondamentale, si caratterizzano per una convivenza tra l’effetto “meccanico”, prostetico, creato da mano umana e quelli elaborati digitalmente al pc; equilibrio che si riflette nel ritmo del racconto, che non cala mai, ma che comunque riesce ad utilizzare i momenti di stasi per preparare, rilanciare ed amplificare le sequenze più dinamiche; equilibrio che emerge soprattutto nel momento in cui si riflette sul trattamento riservato a Johnny Depp sulla scena: lasciato libero di giocare con il suo personaggio, di testare i suoi limiti fisici e psicologici arrivando ad interpretare intere sequenze prese di peso dal mondo dei cartoni animati e della slapstick (pensiamo alla rapina in banca) ed al contempo costantemente affiancato da attori che lo costringono a rientrare nei ranghi, offrendogli, al contempo, la sintonia ideale per esprimere compiutamente il suo potenziale. Si torna, in sostanza, alla stessa struttura tripartita dei primi tre film, anche se due terzi dei componenti sono cambiati in realtà il discorso non cambia, qualcuno, all’interno del team creativo ha capito che Johnny Depp è davvero Jack Sparrow solo nel momento in cui si relaziona con attori che rimarcano l’identità con il suo personaggio.

Bisogna, in sostanza, capire cosa cerchiamo (e cosa vogliamo) da un film del genere. Se cerchiamo l’epicità di certe scene dei capitoli precedenti, questo non è il film per noi, se puntiamo ad una coerenza filologica nei confronti della mitologia che regge la saga, qui, in alcuni tratti, non la troveremo e questo potrebbe contrariare i fan più duri e puri del franchise (ma c’è un motivo: trattandosi di una sorta di reboot indiretto delle avventure di Jack Sparrow non dovrebbe stupire che alcuni elementi della backstory dello stesso Jack o alcuni elementi della struttura narrativa del franchise vengano discretamente ripensati da zero). Se invece ciò che cercate è un film piccolo, contenuto, meglio, una nuova via di intendere il blockbuster, oltreché un ritorno alle atmosfere che lasciano emergere al meglio il potenziale del franchise, La Vendetta Di Salazar è il film che fa per voi. Less is better, in sostanza, l’importante è sperare che negli eventuali episodi successivi questo ritorno alle origini non si atrofizzi su sé stesso ma ora, forse, è troppo presto per preoccuparsene.

Alessio Baronci


Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

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