RomaFF14 – Scary Stories To Tell In The Dark – Riscoprire L’Orrore Politico

RomaFF14 – Scary Stories To Tell In The Dark – Riscoprire L’Orrore Politico

In un’epoca di revival e post revival legati alla cultura di massa, un progetto come Scary Stories To Tell In The Dark semplicemente non può passare inosservato.

Un po’ per la vera e propria sfida creativa che ha portato alla sua nascita, un po’ per le professionalità creative coinvolte nella produzione (da Guillermo Del Toro all’astro nascente dell’horror europeo  André Øvredal, che qui dirige), ma soprattutto per il modo in cui finisce per intersecare alcuni degli spunti più interessanti legati all’acceso dibattito sui concetti di revival e Retromania emersi negli ultimi anni, arrivando a problematizzare quello stesso Stranger Things tanto celebrato quanto ostracizzato per il modo in cui si rapporta all’America del passato nel tentativo di creare un dialogo tra fruitori del presente e cultura di massa del passato.

Scary Stories To Tell In The Dark è prima di tutto un prodotto perturbante, data la sua volontà di partire da un orizzonte d’attesa del pubblico almeno apparentemente definito e a suo modo popolare, spingendosi però fino a ridefinire le coordinate essenziali di quella che, almeno apparentemente, sembra la sua matrice.

Il film muove i suoi primi passi non tentando neanche di smarcarsi dalla facilissima analogia con la serie di casa Netflix. Dopotutto, anche qui, ci troviamo in una versione passata dell’America (in questo caso siamo negli anni del Vietnam) e viviamo l’avventura autunnale di un gruppo di teenagers borderline alle prese con vicende paranormali ma come in un sogno inquietante, il meccanismo ci mette poco a complicarsi, o, meglio ancora, a corrompersi.

Dopo il processo di setting, dopo che la diegesi ha posizionato a dovere i pezzi sulla scacchiera, il progetto prende coscienza e comincia ad assumere i suoi veri e propri tratti identitari.

Come in fondo lascia già intendere la presenza di Guillermo Del Toro in produzione, un autore che da sempre è abituato a tirare in causa, attualizzare e confutare gli elementi essenziali del genere horror attraverso il suo cinema, Scary Stories To Tell In The Dark è facilmente assimilabile ad un laboratorio attraverso cui il team creativo studia e analizza i meccanismi alla base dell’horror contemporaneo una volta che esso entra a contatto con le nuove generazioni, partendo, proprio da quello Stranger Things che ha riscritto le regole dell’intrattenimento di genere in termini di fruizione e spettatorialità.

L’horror per le giovani generazioni si è imborghesito, semplificato, è annegato nella nostalgia e porta in scena una realtà posticcia, preferendo rifugiarsi nel ricordo piuttosto che tematizzare le reali linee tensive della società contemporanea (seguendo, ad esempio, la lezione di Romero), sembrano dirci Del Toro ed Øvredal e dunque, nel suo piccolo, Scary Stories To Tell In The Dark vuole essere un tentativo di riformare l’horror per ragazzi ridefinendone i caratteri essenziali e tentando di depurarlo da tutte quelle zone grigie che, a loro dire, hanno affossato il rapporto tra genere e pubblico negli ultimi anni.

Cosa diventa, in sostanza, Stranger Things quando finisce in mano a Guillermo Del Toro? La risposta, presto detto, è una creatura inquietante che ha, come si è visto, solo lo scheletro di un sistema già conosciuto dal pubblico e che finisce per rileggere praticamente ogni altra singola fibra su cui si struttura.

Si abolisce il meccanismo nostalgico, complice, in primis, il setting in un’epoca oscura, pericolosa e ambigua come l’America Nixoniana alla fine del Vietnam, un contesto storico che, carico di tensioni sociali, disagio, intolleranza e soprusi del potere, difficilmente qualcuno vorrebbe rivivere (ma dopotutto perché rivivere sensazioni che possiamo toccare con mano ogni giorno?).

Su un piano di lettura più ampio, finisce per complicarsi anche il rapporto che si sviluppa tra il pubblico e i protagonisti. Caratterizzati solo apparentemente in maniera superficiale, i ragazzini che compongono il party al centro del film sono piuttosto entità sfaccettate, con profondi chiaroscuri, più vicini a disagiati reali che a simpatici losers di marca Kinghiana (basti annotare come i due protagonisti principali siano una ragazzina ai limiti della depressione che combatte i sensi di colpa per essere stata abbandonata dalla madre e un renitente alla leva), personaggi che perlomeno fanno vacillare il classico meccanismo empatico che si organizza tra loro e lo spettatore, lo stesso meccanismo dato praticamente per scontato dai personaggi che animano la serie Netflix, per necessità più definiti nei loro tratti e nella loro morale.

Discorso a parte e particolarmente fruttuoso per il discorso che qui stiamo tentando di organizzare è quello legato al citazionismo. Prevedibilmente, complice anche l’asciutta fonte letteraria da cui è tratto il film, che permette ben poco in questi termini, Scary Stories To Tell In The Dark non può contare sulla fantasmagoria di citazioni che caratterizza Stranger Things ma questo rigore, questa griglia obbligata, diventa il vettore attraverso cui il film di Øvredal organizza un’altra fase della sua riforma dell’horror contemporaneo per ragazzi: le citazioni sono ridotte al minimo e, spesso, conservano in loro un certo alone d’inquietudine (pensiamo anche solo agli oscuri pezzi rock and roll che popolano la colonna sonora). Nel momento in cui, poi, si porta il proprio il “testo” all’esterno e lo si fa interagire con altre opere, l’operazione è sempre, a suo modo, traumatica: Stephen King fa si capolino ma lo fa attraverso una delle occorrenze più cupe, la sparizione di Georgie in It riverberata in quella del bullo Tommy e si tratta, di fatto, l’unica incursione nella cultura effettivamente di massa. A nutrire Scary Stories To Tell In The Dark è piuttosto la tradizione horror americana classica, da Edgar Allan Poe a Henry James, autori che prima di Del Toro e Øvredal hanno affrontato quel rapporto tra scrittura e immaginazione che è uno dei nodi principali del film.

Si avverte in sostanza una certa tensione che punta ad elevare il prodotto da progetto per le masse a opera che si rapporta al genere attraverso un piglio autoriale, prova ne sono le radici profonde che il film ha ben piantate nello stile dei due autori alle sue spalle.

La regia di Scary Stories To Tell In The Dark è tutta gestita sul fascino New Weird a cui Øvredal è legatissimo, fatto di inquadrature inusuali, di creature design inconsueto, disturbante, ma soprattutto organizzato su un’impostazione delle scene lontane dalla sensibilità del pubblico (pensiamo alla sequenza dentro al manicomio), al contempo, la drammaturgia del film porta in sé la sensibilità tipica che Del Toro ha nei confronti dell’horror per così dire politico.

Scary Stories To Tell In The Dark, esattamente come accade ne La Spina Del Diavolo, interroga lo statuto del fantasma e lo ammanta di un alone civile: l’orrore nasce dalla società ed è acuito, spesso, dalla malvagità dei vivi più che da quella dei morti, con le maledizioni vengono nutrite e generate da calunnie (come in questo caso) o da crimini politici più che da formule magiche.

L’epilogo positivo, stanti queste premesse e come da tradizione dei progetti di Del Toro non può che passare attraverso l’innocenza dei più giovani, a cui, anche in questo caso, è affidato il compito di ricostruire l’equilibrio iniziale.

Non è esente da difetti, Scary Stories To Tell In The Dark, a volte il ritmo cede e il progetto smarrisce la sua identità, non sapendosi decidere se essere uno Stranger Things per giovani adulti (più adulti che giovani) o una puntata Premium della serie live action di Piccoli Brividi ma ha dalla sua la serietà degli obiettivi e, soprattutto, la chiarezza delle sue argomentazioni, dimostrandosi un progetto capace di organizzare un discorso complesso attorno alle forme dell’intrattenimento contemporaneo, dimostrando, di fatto, che una narrazione di genere, rivolta ai più giovani, può in effetti affrancarsi dalla coperta di Linus della nostalgia, risolvendosi in un’atmosfera più concreta e in un prodotto finale dotato forse di un impatto sul pubblico ben più efficace.

Alessio Baronci

Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

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