Roma FF14 – Judy – Sempre Dritto, Sulla Strada Che Conduce Agli Oscar

Roma FF14 – Judy – Sempre Dritto, Sulla Strada Che Conduce Agli Oscar

Tra le diverse sottocategorie che si vanno a inserire all’interno del genere biopic, una delle più sfruttate è senza dubbio quella organizzata attorno alla vita di attori e/o cantanti divenuti icone immortali nell’immaginario culturale collettivo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di operazioni studiate da una casa di produzione per racimolare consensi e fare da trampolino di lancio all’attore/attrice scelto come nome di punta in vista della stagione degli Oscar, con risultati perfettamente inseriti all’interno di un’impostazione modestamente classica e fedele agli stilemi più noti del genere. Se questo è innegabile, è però altrettanto vera la possibilità di trovarci di fronte pellicole in cui l’elemento biografico viene anche analizzato nelle sue componenti meno convenzionali, magari sviluppando la narrazione a partire da una trance de vie specifica oppure ripercorrendone gli attimi salienti di un’intera carriera o fase, per riflettere il rapporto tra artista e icona, tra pubblico e privato, senza (ovviamente) cadere nei soliti stereotipi (l’esempio più recente di questa deviazione superficiale è sicuramente Bohemian Rhapsody).

In riferimento al primo esempio, appena un anno fa, venne presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma Stan & Ollie, diretto da Jon S. Baird, film che rievocava l’ultimo periodo della carriera artistica del celebre duo comico, intervallando all’interno una serie di flashback il cui peso si rifletteva nelle azioni del presente diegetico. Una scelta particolarmente interessante e anche ben sviluppata in questo caso, non solo perché il film di Baird riusciva a offrire un ritratto delicato e malinconico di Laurel e Hardy al crepuscolo del loro sodalizio, ma soprattutto nella capacità di ragionare in modo sottile e per nulla banale sul concetto di arte e divismo. L’arte recitativa in Stan & Ollie viene di fatto analizzata e rappresentata non solo in quanto mezzo di espressione e realizzazione dell’attore, ma anche come un meccanismo perverso in cui la finzione lentamente ingloba tutto, invade sempre più la libertà individuale fino ad agire sui comportamenti della persona stessa (i momenti in cui loro non si rendono conto di eseguire una gag fuori dalle scene) e sul modo in cui è vista dall’esterno dal proprio pubblico.

Sulla medesima strada tracciata dal film di Baird sembrerebbe muoversi anche l’ultimo esponente di questo sottogenere, passato anch’esso nella vetrina festivaliera di Roma. Stiamo ovviamente parlando di Judy, film diretto da Rupert Goold e scritto da Tom Edge (sceneggiatura a sua volta ispirata al dramma teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter). Se dovessimo azzardare un confronto tra le due opere noteremmo non poche somiglianze nell’approccio scelto in fase di realizzazione e di scrittura. La stessa decisione di concentrarsi su l’ultima fase della carriera dei personaggi è un elemento abbastanza rivelatore in tale senso.

Siamo nell’anno 1939. Judy Garland (Renée Zellweger) è sulla soglia dei 47 anni, non ha una casa, non può neanche permettersi una camera d’albergo a causa dei troppi debiti accumulati e rischia di perdere la custodia dei suoi figli a favore dell’ex marito Sidney Luft. Il pubblico la sta lentamente dimenticando e le offerte di lavoro, almeno negli Stati Uniti, scarseggiano. L’unica soluzione che le si profila davanti è accettare di esibirsi per una tournee di cinque settimane a Londra presso il “The Talk of the Town” di Bernard Delfont (Michael Gambon) e guadagnare il denaro necessario per risollevarsi e garantire un tetto ai propri figli. Ma la sua voce non è più quella di una volta e il lavoro, lo stress, l’abuso di farmaci e alcool per combattere l’insonnia la stanno consumando sempre di più nel fisico e nello spirito.

Un altro punto di contatto con la pellicola di Baird è la scelta di alternare al ramo principale della storia una serie di flashback che, nel caso di Judy, mostrano l’attrice a soli sedici anni impegnata sul set de Il Mago di Oz, proprio il film che la imporrà definitivamente con il nome di Judy Garland. Attraverso queste sequenze conosciamo una giovane ancora piena di sogni e illusioni che, una volta firmato il contratto per la parte di Dorothy, si scontra con una realtà tutt’altro che magica, costretta a sottostare alle più dure e umilianti imposizioni del produttore Louis B. Mayer: mantenersi in perfetta forma fisica, gli allenamenti, poco riposo e solo in orari precisi ed essere sempre impeccabile davanti alle telecamere. Nel fare tutto ciò, Judy è tenuta sotto un invadente controllo della produzione che la obbliga perfino ad assumere integratori alimentari e sonniferi fino a diventarne dipendente. Una manipolazione piscologica a cui l’ingenua fanciulla non riuscì mai ad opporsi e che, sebbene le garantì un futuro invidiabile, le portò via altrettanto sul piano personale. In età adulta, Judy è sempre più schiava dei farmaci, malata di inappetenza e di insonnia ed è ancora sfruttata senza pietà dallo show business, tanto da non poterne fare più a meno per riavere i suoi figli.

Nella gestione di questo continuo dialogo tra passato e presente, Judy riesce sicuramente a porsi come un film solido, seppur estremamente patinato, elegante e mostra alcune scelte registiche davvero ispirate. Basti pensare al piano sequenza inziale; alla gestione dei flashback, in particolare nelle scene tra la Garland e Mayer, in cui l’uso delle luci e delle scenografie sono funzionali nel restituire lo stato di oppressione psicologica di cui è vittima la ragazza e la natura artefatta di quel mondo di pura finzione costruitole attorno; o ai momenti di pura performance canora della Zellweger in cui la regia di Goold si mette da parte lasciando il giusto spazio alle doti dell’interprete. Una messa in scena squisitamente teatrale che, per quanto canonica e scolastica, risulta coerente alla materia di base da cui si è deciso di ripartire e se alcuni passaggi narrativi hanno poco o nulla a che vedere con la realtà dei fatti, si tratta di situazioni che non appesantiscono troppo lo svolgimento e ben si inseriscono in un genere che ha da sempre unito aspetti reali e ad altri più finzionali.

Paradossalmente ciò che non permette ad un film come Judy di esprimere del tutto i suoi meriti è rappresentato da quella stessa volontà di offrire al pubblico un prodotto standard nel suo genere, capace di commuovere con la parabola discendente della sua protagonista ma fin troppo didascalico e superficiale sul piano della scrittura. Laddove Stan & Ollie riusciva a mantenersi delicato e dosato nell’uso della retorica e perfettamente in grado di rievocare i due artisti raccontando la profonda amicizia che li legava, Judy appare alquanto soffocato da una narrazione incredibilmente vuota e con una caratterizzazione dei personaggi schematica, parziale (mi riferisco a figure quali il compagno Mickey, l’ex marito Sidney, l’assistente Rosalyn o le figure dietro le quinte del “The Talk of The Town”) e del tutto accessoria ad uno sviluppo che ha come unico centro la protagonista e la sua parabola fatta di traumi, sofferenze e (più o meno) costanti delusioni personali. Piuttosto che una riflessione coraggiosa sull’icona della Garland e su quell’attaccamento all’arte che l’ha prima consacrata e poi spezzata, sembra quasi che Judy si accontenti di essere il trampolino per un rilancio professionale della Zellweger, attrice un po’ scomparsa dai radar delle produzioni di un certo spessore, e che qui trova lo spazio ideale dentro cui muoversi (a metà strada tra un mimetismo fine a sé stesso e la libera reinterpretazione). Judy è fondamentalmente un film cucito su di lei e per puntare dritti all’Oscar come migliore attrice protagonista.

A conti fatti quello che poteva risultare l’intuizione maggiore all’interno della sceneggiatura, l’elemento in grado di avvicinare Judy ad un processo di decostruzione sul genere o (perché no?) di riflettere sulla personalità dell’artista, facendo riferimento ai recenti scandali nell’ambiente hollywoodiano, sulle ambiguità e i lati oscuri dello show business, non viene contestualizzato adeguatamente e gli stessi flashback sembrano spesso inseriti in modo disorganico. Ed è un peccato per un film che aveva delle ottime idee da cui ripartire, in particolare un ultimo atto emozionante e dal sapore amarissimo, dove una Judy sempre più sola, sconfitta e stanca rinuncia per amore a ciò che le è di più caro e si concede un’ultima ribalta di fronte a quel pubblico che, nonostante tutto, non smetterà mai di amarla e di ricordarla.

In definitiva Judy si dimostra un perfetto biopic di medio livello, curato per quanto riguarda la messa in scena, i costumi, le scenografie, la ricostruzione d’epoca, sapientemente confezionato ma fondamentalmente rinunciatario rispetto alla complessità di una materia tanto incandescente e privo di qualsivoglia forza discorsiva.

Laura Sciarretta

Laura Sciarretta

Laura Sciarretta: (14 dicembre 1988) è laureata in Letteratura Musica e Spettacolo alla Sapienza di Roma dove approfondisce le proprie conoscenze umanistiche. Dopo un periodo un po’ complesso, frequenta il corso magistrale in Spettacolo teatrale, cinematografico e digitale, sempre alla Sapienza, dove si laurea in forme e modelli del cinema italiano. Nel frattempo inizia alcune collaborazioni, ricordando in particolare l’esperienza formativa e indimenticabile con il portale on line “Rear Windows”, per cui scrive diversi articoli e collabora attivamente dal 2014. Le viene proposto di entrare a far parte di “Liberando Prospero” verso la fine del 2018. Visti gli obbiettivi del collettivo, tra cui la comune volontà di proporre analisi, prospettive e riflessioni nuove e sempre attente al contesto culturale e ricettivo, alle tendenze e al pubblico con cui l’arte, il cinema, il teatro, la serialità televisiva e i nuovi medium entrano in comunicazione, coglie questa opportunità con ritrovato e genuino entusiasmo.

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