Parasite – Un Discorso Apocalittico Attorno Alla Contemporaneità

Parasite – Un Discorso Apocalittico Attorno Alla Contemporaneità

«È così metaforico» afferma più volte il protagonista Ki-woo, studente universitario disoccupato e costretto a convivere insieme alla sua famiglia (padre, madre, sorella) all’interno di un seminterrato sporco e puzzolente, in uno dei quartieri più poveri di Seul. Una frase che esplicita e sottolinea la natura allegorico-simbolica del racconto su cui è costruito Parasite, settimo lungometraggio del regista Bong Joon-ho, ancora una volta intenzionato a proseguire la sua visione della società coreana, svelarne le criticità insite, le profonde disparità socio-economiche e osservare lo stato morale dell’umanità agli antipodi che ne fa parte. D’altronde la metafora è da sempre una delle caratteristiche centrali nelle istanze artistiche di Bong, sin dall’esordio tragicomico di Barking Dogs Never Bite, film seminale per quel che riguarda le principali istanze artistiche qui riproposte; e poi ancora di Snowpiercer, film in cui il regista raccontava il conflitto classista attraverso la decostruzione della fantascienza distopica; o di The Host, un monster movie capace di unire il racconto sulla disgregazione familiare dei protagonisti alla critica verso gli abusi di potere e le azioni mostruose compiute dallo Stato. Metafora insita nel titolo stesso e che, vista la definizione di “parassita”, ovvero l’essere incapace di sopravvivere senza un organismo ospitante, può riferirsi alla necessità di chi è costretto a sopravvivere attraverso gli espedienti più assurdi e fraudolenti, a chi aspira ad uno stile di vita estraneo e globalizzato in cui perdere la propria identità, o magari a chi quel ruolo lo occupa accontentandosi della propria misera esistenza.

Dopo la trionfale presentazione in occasione del Festival di Cannes di quest’anno, coronata con l’acclamata vittoria della Palma D’oro, Parasite si è trasformato in un successo di pubblico tanto inaspettato quanto incoraggiante, non solo in termini di visibilità per uno dei cineasti postmoderni tra i più interessanti di questa decade, ma soprattutto per le possibilità comunicative di un cinema capace di restare ben inserito all’interno di dinamiche sociali, culturali e politiche proprie e allo stesso tempo di proporre allo spettatore una visione poco conciliatoria e amara della contemporaneità di cui siamo tutti (volenti o nolenti) partecipi. Per poter meglio chiarire i vari punti del discorso proposti da Parasite onde evitare possibili fraintendimenti, è necessario dunque procedere con calma.

Il primo errore da non commettere è quello di giudicare Parasite come un film sulla lotta di classe tra poveri (incarnati dalla famiglia del protagonista, i Kim) e ricchi (i Park). O meglio, questo è solo il punto di partenza per costruire un discorso ben più articolato, complesso e radicale. Come vedremo, si tratta della rappresentazione di un gioco di specchi e di doppi che non si esaurisce nella satira antiborghese e limitarsi a mettere alla berlina le ipocrisie e il vuoto della classe altolocata (come abbiamo visto molte volte al cinema) rispetto alla miseria degli ultimi; è la restituzione di uno sguardo apocalittico e complesso su una società in cui non esistono buoni o cattivi, poiché, in un’epoca come quella attuale, dominata dall’individualismo e dalla competizione feroce, tutti si rivelano il “parassita” di qualcun altro. Chi è vittima del sistema può trasformarsi in carnefice con un battito di ciglia. Ma il raggiungimento del tanto agognato status quo, quel piano a lungo termine su cui fondare la speranza di un futuro e ritrovato benessere, può sempre fallire e ribaltarsi nella più amara delle illusioni.

Bong non solo torna a riflettere sulla realtà sociale del proprio paese (con sottili riferimenti politici alla tensione mai del tutto risolta tra le due Coree) continuando a sperimentare con i linguaggi, a far dialogare i generi e le forme narrative più disparate (lo abbiamo visto con il monster movie, il genere distopico, il poliziesco, la commedia, la favola ambientalista), ma questa volta porta avanti le proprie riflessioni spingendosi su un sentiero più universale e trae spunto da influenze esterne mai così evidenti e stratificate. Dentro Parasite è riconoscibile la lezione di celebri autori della commedia all’italiana anni ’50-’60 di Dino Risi, Mario Monicelli e Ettore Scola (i personaggi ricordano non poco gli sgradevoli, avidi e infine disillusi protagonisti di titoli come Brutti sporchi e cattivi, Risate di gioia o Una vita difficile); c’è lo stile geometrico e dai ritmi dilatati del cinema di Micheal Haneke; ci sono dei richiami a Teorema di Pier Paolo Pasolini e, in una scena in particolare, c’è un senso di grottesco estremo tipico delle pellicole di Marco Ferreri. Eppure, il regista non perde mai le fila del discorso, non si nasconde dietro degli schemi narrativi per poi privarli di forza, anzi resta ben all’interno della propria dimensione d’autore che lo ha da sempre contraddistinto. L’approccio antropologico di Bong non ha nulla a che vedere con lo sguardo cinico di titoli come Funny Games o Niente da nascondere; esattamente come le riflessioni su tematiche quali la violenza, il perturbante e la disgregazione del nucleo familiare rispondono direttamente ad una concezione dell’esistenza segnata dalla morte, dal nichilismo e dalla stupidità dell’uomo comune più che dall’autolesionismo e dalla morte della classe borghese (da sempre al centro dei titoli di Haneke).

Ma dove Bong ottiene il massimo del risultato è nelle modalità in cui il suo film trova un canale comunicativo coraggioso nei confronti dello spettatore medio.

Il meccanismo iniziale, infatti, è talmente riconoscibile, calibrato, quasi leggero nella sua prima parte, che lo spettatore può interagire con la trama e i personaggi senza troppa difficoltà ma poi, in un secondo, terzo momento, Bong lo fa uscire sempre di più dalla sua confort zone fino a metterlo in contatto con quel lato oscuro ed ambiguo della realtà da cui (troppo) spesso viene tenuto lontano.

In tutto ciò Parasite dimostra di possedere una compattezza discorsiva in cui non solo la forma (intesa come estetica visiva, messa in scena, montaggio) è sempre funzionale al suo contenuto (la storia, le dinamiche tra i personaggi), ma entrambi i vettori si muovono per restituire il valore simbolico della metafora politica che vi è applicata e il senso di inevitabile implosione finale, che è poi alla base degli eventi diegetici.

Tutto ha inizio con la presentazione/confronto delle due famiglie. I Kim sono “letteralmente” relegati nel sottosuolo urbano con un’unica finestra a livello del manto stradale da cui è possibile intravedere un spicchio dell’esterno, zona del quartiere in cui passanti ubriachi si fermano per urinare. Padre, madre, figlio e figlia sono quattro disoccupati che (soprav)vivono attraverso umili lavoretti (come rimontare cartoni da rivendere ad una catena di pizzeria) e vari stratagemmi, come sfruttare la connessione wi-fii del vicino o lasciarsi invadere casa dal gas della disinfestazione pubblica per tenere a bada gli scarafaggi che spesso vi si intrufolano.  La svolta si verifica quando a Ki-woo viene proposto di sostituire un amico come tutor d’inglese della liceale Da-hye, rampolla di una delle famiglie più ricche e facoltose della città.

I Park sono gli “altolocati”, abitano in una villa lussuosa, lontano dal fetore e dalla miseria delle zone basse, in una casa a quattro piani dotata di forme geometricamente perfette, arredi eleganti ed enormi finestre attraverso cui godere della vista del giardino di fronte. Un luogo che metaforicamente incarna quell’avanzamento in verticale all’interno della società di cui Ki-woo intravede il potenziale. Grazie ad un falso titolo di studio, a una buona dose di intraprendenza e (soprattutto) ad un’ottima raccomandazione (tanto basta per costruire una catena di fiducia per gli “ingenui” benestanti), il ragazzo ottiene il lavoro e insieme alla sua famiglia mette in atto un piano per far licenziare l’attuale servitù dei Park e prenderne il posto tramite i più meschini sotterfugi. Ed è così che la sorella Ki-jeong assume il ruolo di art therapist per il piccolo Da-song; il padre Ki-Taek diviene il nuovo autista per accompagnare il signor Park in ufficio e la madre Chung-sook sostituisce l’anziana governante Moon-gwang.

A questo punto la villa diviene il palcoscenico-metafora del discorso interno di Parasite, il luogo dove pian piano le maschere dei personaggi iniziano a cadere e Bong scava sotto l’epidermide rassicurante del racconto per svelare quella realtà apocalittica e carica di disperazione di cui si era accennato all’inizio.

Se i Kim sono gli addendi principali su cui far muovere lo sguardo critico verso la classe agiata, coloro che ne svelano ingenuità, ipocrisie (una gentilezza figlia del benessere, la falsa apertura verso il prossimo, poi annullata dalla necessità di ripristinare la linea di demarcazione tra loro e gli altri) e debolezze (credere che il denaro possa appianare ogni incrinatura), non sono certo le figure positive con cui lo spettatore si ritrova a empatizzare senza alcuna criticità di fondo. Anch’essi vengono denudati nelle loro illusorie ed egoistiche aspirazioni e attraverso loro, Bong pone i termini del discorso sotto una prospettiva ancor più complessa: se i padroni benestanti sono il simbolo del capitalismo neoliberista e dell’omologante globalizzazione del nostro tempo; i servi, la classe inferiore, non aspirano a a occuparne l’ambiente per metterlo a nudo, violarlo e poi farlo deflagrare. No. Il personaggio di Ki-wuu, qui nella duplice funzione di demiurgo/artefice della scalata sociale dei reietti e intruso “pasoliniano” che scardina dall’interno l’equilibrio della buona famiglia borghese, non mira a distruggere quel mondo, anzi cerca in tutti i modi di emularlo, aggirarlo per poi desiderare di farne parte e reiterarne i meccanismi, però trascinandosi dietro il suo retaggio di miserabile. Esemplare la scena in cui, approfittando della momentanea uscita di scena dei Park, i Kim si intrufolano nel lussuoso appartamento, lo abitano come fossero gli effettivi proprietari e iniziano persino a ripeterne gli atteggiamenti, o quanto meno, a “reinterpretarli” a modo loro.

Dopo un primo atto a carattere comico-satirico, in cui è centrale la presa in giro dello status quo neoliberista, Parasite si trasforma in un home invasion con il rientro in scena dell’anziana governante e la scoperta di un segreto celato nei sotterranei dell’abitazione. Proprio lì è dove si nasconde il marito Geun-sae, un uomo costretto a fuggire dai problemi che ne hanno afflitto l’esistenza e che si è autoimposto una prigionia dall’esterno in cui ha imparato a vivere da silenzioso e felice parassita. I Kim rischiano di essere scoperti e lo scontro tra le parti è inevitabile; una lotta intestina che porterà alla vera deflagrazione dell’ordine. Ma se la caduta dei ricchi, per quanto tragica, non sortisce alcun effetto, visto che ci sarà sempre un’altra famiglia benestante pronta ad occuparne il posto, per i poveri se non condannati alla morte fisica o alla prigione, sono comunque destinati alla disgregazione familiare, al disfacimento morale, all’annullamento di sé stessi e ad un permanente stato parassitario in cui sopravvivere (emblematico il momento in cui si nascondono sotto un tavolo come fossero insetti, mentre i padroni di casa riprendono possesso dello spazio domestico); alla fine non resta altro che il desiderio, la tensione verso qualcosa di irraggiungibile nonostante sembri alla portata ma che verrà sempre negato (una negazione antropologica che assume peso attraverso quell’odore che i poveri non riescono a togliersi di dosso, neanche quando ripuliti e vestiti ad arte per continuare la farsa).

Dopo aver mostrato allo spettatore un sistema caratterizzato dalla satira estrema, in cui la disparità tra ricchi e poveri è raccontata tramite gli spazi (le due case), i comportamenti e altri piccoli dettagli, dopo averlo intrattenuto con un tono comico leggero deridendo gli atteggiamenti più estremi e ridicoli dei personaggi e averlo introdotto in un quadro in cui la messa in scena si dimostra visivamente controllata, geometrica ed esteticamente elegante nei movimenti; proprio ora, tutte le pedine messe in piedi da Bong iniziano ad implodere fino a frantumarsi e a ricomporsi in una risoluzione intrisa di violenza e fallimento. Lo stile diviene più nervoso, multiforme; il senso di empatia rispetto all’agire dissimulatorio dei personaggi, percepito sin qui come scomodo e non del tutto condivisibile da parte di chi guarda, cambia di segno, e la commedia farsesca si ribalta nella tragedia di una rivalsa impossibile.

Parasite cambia registro, assume più narrazioni e stili al suo interno per ribaltarli, tradirli, intersecarli fino a farli confluire l’uno nell’altro senza nette distinzioni. L’heist movie e la commedia dei ruoli lasciano spazio ai caratteri tipicamente horror dell’home invasion, poi ancora del revenge movie fino a quelli dolenti e pirandelliani del dramma esistenziale in seguito alla catartica esplosione di violenza che si verificherà nella resa dei conti finale.

L’assurdità del fato, il destino beffardo, il caso crudele e incomprensibile rimette tutto in discussione sotto forma di un diluvio che ridefinisce le distanze tra i personaggi, sommerge le case di chi vive sotto e risparmia chi è al di sopra e infine spazza via ogni certezza e ogni progettualità possibile, perché (come dice Ki-Taek a suo figlio) non esistono piani nella vita, quindi è meglio non averne. Proprio in seguito a questa deflagrazione strutturale, narrativa e visiva, segue la presa di coscienza figlia del discorso proposto da Bong. In mondo sull’orlo dell’apocalisse, non per forza condannato all’estinzione ma le cui dinamiche sono comunque destinate a ripetersi come in un cerchio assurdo e crudele, in quella realtà sempre più dominata dalla ricerca di un fittizio benessere per i propri cari, dalla ripetizione dei comportamenti, dall’avidità, dalla lotta tra miserabili e dal conservatorismo dei ricchi, non è più possibile ribellarsi, uscire da determinati ruoli, evadere dai confini entro cui siamo relegati e così siamo portati a ripetere schemi e comportamenti senza alcuna possibilità di riscatto e ogni azione rivoluzionaria e propositiva conduce ad una nuova, ennesima prigione.

Laddove Snowpiercer mostrava uno schema darwiniano perfettamente metaforizzato nell’immagine allegorica di un treno ipertecnologico, ultimo rifugio dell’umanità sopravvissuta ad una apocalisse globale, dove ad ogni vagone corrispondeva un preciso gruppo di appartenenza della scala sociale, Parasite è un sali/scendi continuo; un meccanismo (dichiaratamente e auto-ironicamente) metaforico per far entrare lo spettatore in empatia con la storia, le dinamiche tra i protagonisti e l’azione gettandogli in faccia un quadro molto poco edificante della realtà politica, sociale e antropologica che sta raccontando e per cui non è prevista redenzione per nessuna delle parti coinvolte.

Perché in fondo, in una società in cui le disparità sociali sono sempre più evidenti e impossibili da superare, nonostante l’apparenza del contrario, nell’epoca post crisi del neoliberismo, in cui il moderno capitalismo mostra il suo volto più disumano e l’omologazione culturale rischia di farci perdere il contatto con la nostra identità e le radici primarie, quello che conta è sempre il risultato, salire la scala che conduce all’agiatezza e al lusso, costi quello che costi.

Parasite di Bong Joon-ho dunque è un film che vince tutte le scommesse che si pone davanti.

È un’ottima commistione di generi e di registri.

È una sagace e amara riflessione sui lati oscuri della società contemporanea.

È il ritorno in patria di un autore che pur non toccando le vette artistiche dei suoi lavori più personali (come accaduto ad esempio con Memories of murder e Mother) conferma di essere divenuto un metteur en scene sempre più abile ed elegante oltre che drammaturgo solido e intelligente, capace di restituire profondità a dei personaggi ad alto rischio macchietta, di appellarsi a schemi, narrazioni e riferimenti ben riconoscibili (forse un po’ derivativi) senza perdere mai di vista la sostanza del discorso e di mettere lo spettatore medio a contatto con gli aspetti più scomodi e oscuri della realtà che lo riguarda da vicino.

Laura Sciarretta

Laura Sciarretta

Laura Sciarretta: (14 dicembre 1988) è laureata in Letteratura Musica e Spettacolo alla Sapienza di Roma dove approfondisce le proprie conoscenze umanistiche. Dopo un periodo un po’ complesso, frequenta il corso magistrale in Spettacolo teatrale, cinematografico e digitale, sempre alla Sapienza, dove si laurea in forme e modelli del cinema italiano. Nel frattempo inizia alcune collaborazioni, ricordando in particolare l’esperienza formativa e indimenticabile con il portale on line “Rear Windows”, per cui scrive diversi articoli e collabora attivamente dal 2014. Le viene proposto di entrare a far parte di “Liberando Prospero” verso la fine del 2018. Visti gli obbiettivi del collettivo, tra cui la comune volontà di proporre analisi, prospettive e riflessioni nuove e sempre attente al contesto culturale e ricettivo, alle tendenze e al pubblico con cui l’arte, il cinema, il teatro, la serialità televisiva e i nuovi medium entrano in comunicazione, coglie questa opportunità con ritrovato e genuino entusiasmo.

2 pensieri su “Parasite – Un Discorso Apocalittico Attorno Alla Contemporaneità

  1. “Perché in fondo, in una società in cui le disparità sociali sono sempre più evidenti e impossibili da superare, nonostante l’apparenza del contrario, nell’epoca post crisi del neoliberismo, in cui il moderno capitalismo mostra il suo volto più disumano e l’omologazione culturale rischia di farci perdere il contatto con la nostra identità e le radici primarie, quello che conta è sempre il risultato, salire la scala che conduce all’agiatezza e al lusso, costi quello che costi” Condivisibile! Un plauso alla tua bella analisi di questo meraviglioso film!

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