Get Out – La Questione Razziale E L’Horror Politico
Quando venne rilasciato nelle sale statunitensi, Get Out (da noi ritradotto “Scappa- Get Out“) si è velocemente trasformato nell’exploit cinematografico della stagione cinematografica 2017. Costato appena 5 milioni di budget, ne ha guadagnati ben 200 (solo in patria) riuscendo a mettere d’accordo tanto il pubblico quanto la critica specializzata, fino ad ottenere il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale, vinto da (un allora esordiente regista/sceneggiatore) Jordan Peele.
Ma Get Out non è solo uno dei risultati più redditizi di quel modello produttivo che la Blumhouse sta mettendo in atto da diversi anni a questa parte (di cui vi abbiamo già parlato in occasione del recente The Invisible Man). Cosa ancora più significativa, Get Out resta forse uno dei prodotti audiovisivi che meglio ha saputo intercettare le paure profonde della comunità afroamericana nei confronti del sistema politico-sociale di cui fanno parte e affrontare senza mezzi termini quella tensioni (tuttora) irrisolte tra bianchi e neri nella società statunitense di ieri (il film uscì quasi a ridosso della vittoria di Trump) e (purtroppo) di oggi.
Quanto è successo (e continua a succedere) negli Stati Uniti sono tutti sintomi di un male ancora attuale. Un cancro che neppure la presidenza Obama ha saputo curare in modo efficace e definitivo. Già allora Peele prese di petto la questione. Le violenze perpetuate dalla polizia, gli abusi di potere che ha visto coinvolti giovani uomini di colore, le rivolte della comunità afroamericana e le rivendicazioni del movimento Black Lives Matter erano sulle prime pagine anche all’epoca dell’uscita.
Da un lato vuole (al pari di altri suoi colleghi) tematizzare le paure, le tensioni e le inquietudini di cui è intessuto l’attuale tessuto sociale americano. Dall’altro tenta di dialogare con la comunità black per farla confrontare con quelle stesse paure, con i traumi e con quei luoghi comuni oramai solidificatisi nell’immaginario culturale che li riguarda. E lo fa attraverso quelli che sono gli strumenti più congeniali: ovvero l’ironia, il ribaltamento continuo delle aspettative e il perturbante.
Il modo in cui Peele organizza e mette in scena gli eventi all’interno di Get Out non è molto diverso dalle modalità con cui gestisce i momenti istant e gli sketch comici di Key and Peel (una comedy tv con protagonisti lo stesso Peele e l’attore Keegan-Michael Key) dove (guarda caso) prende di mira questioni inerenti alla razza, agli stereotipi culturali e alla politica americana attuale.
La regia si dispiega attraverso situazioni fortemente stranianti, in cui una battuta messa in bocca ad un personaggio serve a camuffare il senso di disagio che prova, o un momento di imbarazzo assume d’improvviso toni sinistri e ambigui.
Nella primissima scena di Get Out vediamo un afroamericano che mentre parla al cellulare, si rende conto di essersi perso e di camminare in un quartiere senza avere punti di riferimento. Una macchina sembra inseguirlo. Appare visibilmente nervoso ma cerca di allontanarsi facendo finta di niente. Un uomo dal viso coperto esce dall’auto, lo aggredisce e lo trascina via chissà dove.
La diegesi stessa prende le mosse (non a caso) dalla tipica situazione alla meeting parents. Chris Washington è un giovane fotografo afroamericano fidanzato con la bella e dolcissima Rose, giovane rampolla della white class democratica. In occasione di un ritrovo familiare nel weekend, Chris conoscerà la famiglia di Rose, svelando così la natura interrazziale del loro rapporto. Teme di non essere bene accetto nonostante Rose lo rassicuri continuamente. La sua famiglia è di quelle con una mentalità aperta e progressista. Il colore della pelle non è assolutamente un problema. In effetti, gli Armitage sembrano corrispondere alle parole di Rose. Si dimostrano alquanto felici della presenza di Chris nella loro casa. Gli ospiti e i parenti lo accolgono a braccia aperte. Persino i due domestici, il giardiniere Walter e la governante Georgina(entrambi neri), sono ben voluti dalla famiglia e viceversa.
Chris però avverte che qualcosa non va nell’atteggiamento cordiale di quelle persone. Non nasconde un certo disagio nel muoversi in un ambiente tanto accogliente eppure superficiale nei modi e nelle espressioni. Quando si rivolgono a lui gli vengono fatti complimenti per una serie di “qualità” associate alla sua razza. Walter e Georgina lo trattano con estrema freddezza. Viene invitato dalla signora Armitage a partecipare ad una seduta d’ipnosi per curare il vizio del fumo.
Lentamente Get Out scivola verso territori più oscuri e terrificanti. L’aspetto luminoso e limpido della prima parte lascia spazio ad una messa in scena che si dispiega tra flashback, allucinazioni e diversi prelievi culturali e mediali, dalla letteratura (La fabbrica delle mogli di Ira Levin) al cinema (difficile non pensare ai ritratti asettici di Haneke; a L’inquilino del terzo piano di Polanski), dalla musica (Run rabbit run che sentiamo in sottofondo nell’incipit) alla commedia degli equivoci.
Con questo approccio Peele tenta un dialogo critico e il più possibile costruttivo con il proprio pubblico. Vuole metterlo in guardia, scuoterlo, richiamare costantemente la sua attenzione. Get Out riflette su quelle tensioni implose e mai risolte nella società americana di oggi, dove la violenza e la rabbia tengono costantemente banco su notiziari e servizi tv. Tenta di risvegliare dallo stato di apatia in cui per troppo tempo ha gravato la comunità afroamericana. Vuole richiamare l’attenzione di fronte ai soprusi, al lavaggio del cervello dei media e al paternalismo di quella rappresentanza politica che ha di fatto negato la parola dietro i classici luoghi comuni.
Chris non è altro che la vittima prediletta di un sistema sociale estremamente cattivo, ipocrita e disumano. Gli Armitage e chi come loro, vogliono sfruttarne le doti, la sua storia, il trascorso traumatico e possederlo come gli più conviene. Il fatto che essi dichiarino con fierezza di far parte di quella middle-class liberal progressista che avrebbero voluto Obama per un terzo mandato, cela un desiderio di integrazione che è solo apparentemente disponibile e aperto nei confronti del diverso. Dietro la facciata si nasconde invece un desiderio di appropriazione, quasi di auto-assoluzione delle colpe dei bianchi e un diverso senso di supremazia il cui fine ultimo è sempre il potere sull’altro.
Chi non fa parte di questa buona società è solo un corpo-oggetto che fa tendenza, uno zombie facilmente manipolabile e incapace di reagire. Solo l’ennesima marionetta di un sistema che parla di integrazione ma che continua a fare uso del corpo dei neri per puro guadagno personale. Una forma di razzismo forse meno evidente ma ben più strisciante e (di certo) non meno violento e distruttivo.
In questo senso Get Out si configura come un racconto morale dal peso fortemente allegorico. Una struttura narrativa che a poco svela le ipocrisie e le false verità di quel sistema (politico, culturale, artistico) che ha assunto su di sé i termini della lotta e del riconoscimento di pari diritti dei neri. Che li usa come mero appannaggio delle proprie necessità. Dissacra pesantemente tutti quei luoghi comuni associati all’afroamericano. Smonta le (false) verità di un potere che continua a riproporre visioni, narrazioni concilianti della comunità afroamericana senza mai davvero dargli modo di esprimersi. La paura, la confusione percettiva e lo status di spettatore passivo di Chris gli impediscono di affrontare il dramma che lo ha segnato da bambino. L’ipnosi invece è la metafora di una manipolazione che sfrutta il trauma della segregazione e della schiavitù.
Sorprende in positivo quanto la regia di Peele riesca a mettere una questione così impellente e sentita all’interno di un prodotto ricco di trovate visive e di una pregnanza discorsiva tutt’altro che timida o banale. Dove però Get Out mostra leggermente il fianco è proprio in quella sua necessità di parlare allo spettatore. La metafora in questo senso appare tanto afferrabile quanto didascalica. Una volta uscito allo scoperto, Get Out sembra cedere al compromesso e si attesta su piano in cui la scrittura è sin troppo intuibile e prevedibile nello sviluppo.
Nel finale Peele vuole comunque offrire un’apertura; la possibilità di una fuga dall’incubo. Offre una salvezza purché a ciò corrisponda una risposta decisa. Propone un senso di ritrovata unione che non sia più debitore di altre rappresentanze o di falsi miti.
Get Out si pone dunque come il passo significativo di un percorso autoriale che ha ancora molto da dire. Rivela la scoperta di un autore che può contribuire ad un nuovo modello di film di genere. Un artista che vuole dire la sua all’interno di quel dibattito socio-culturale che sta infiammando gli Stati Uniti d’America. In ultima istanza, tenta di porre una riflessione ulteriore su quanto il razzismo non abbia mai smesso di condizionare le menti dell’America post Obama.
A distanza di anni, dunque, Get Out resta un ottimo esempio di film di genere capace di coniugare intrattenimento e politica; discorso morale e poetica di un nuovo autore.
Laura Sciarretta