Quel “Caro diario” dentro (e oltre) il suo tempo

Quel “Caro diario” dentro (e oltre) il suo tempo

Più che un film di oggi, Caro diario (1993, di Nanni Moretti) sembra un film per l’oggi. Oggi che ritorna in sala nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna. Oggi che è davvero il caso di (ri)vederlo, non solo perché è un film bellissimo (o, come si suole dire, invecchiato benissimo), non solo perché c’è da sostenere il cinema (in sala) in uno dei suoi momenti più bui. Ma perché quel giro in Vespa (primo episodio), quel viaggio per le Isole Eolie (secondo), quell’odissea tragicomica da un medico all’altro (terzo) sono altrettanti, attualissimi sguardi sui paradossi del vivere contemporaneo. Senza avere, beninteso, la pretesa di esserlo. La chimera di tanti (forse troppi) narratori del presente, quella di toccare le grandi questioni dell’esistenza, e magari del proprio e altrui tempo, limitandosi a raccontare se stessi, i propri viaggi, i propri sogni, rimpianti, ossessioni, i propri affanni (stra)ordinari, per Caro diario è un risultato raggiunto.

«In realtà il mio sogno è sempre stato quello di saper ballare bene. Flashdance, si chiamava quel film che mi ha cambiato definitivamente la vita, era un film solo sul ballo. Saper ballare. E invece alla fine mi riduco sempre a guardare, che è anche bello, però… è tutta un’altra cosa». Prendi un passaggio come questo, uno dei tanti pensieri sparsi durante le peregrinazioni del protagonista-autore-regista in Vespa, e ti rendi subito conto di quanto Caro diario sia un film perfettamente calato nel suo tempo: quello che gli storici e i critici (tra cui forse quello  satireggiato nel film, interprete il compianto Carlo Mazzacurati) definirebbero “postmoderno”. Del paradigma postmoderno c’è molto, a ben vedere: dal citazionismo (Flashdance, appunto) all’esperienza totalizzante del «guardare», delle rappresentazioni (di rappresentazioni) mediatiche che vincono sulla realtà («saper ballare»).

A Cannes 1994, dove Caro diario vince il Prix de la mise en scène, la Palma d’oro, non a caso, va a Pulp Fiction. Due film più simili di quanto sembri: tra cinefilia, strutture narrative antitradizionali e, soprattutto, il gusto di mettere in scena, in mostra, in gioco (di gioco, pur raffinatissimo, in entrambi i casi si tratta) la propria soggettività d’autore e di spettatore, dove il confine tra l’uno e l’altro è significativamente incerto. E però, se Pulp Fiction va oltre il paradigma postmoderno nel suo esserne un campione fin troppo perfetto ed emblematico, è per un motivo sottilmente diverso che Caro diario si conferma nel tempo qualcos’altro (e più) di un grande film del suo tempo. Qualcosa che ha proprio a che vedere con quella forma diaristica, col contrasto tra (eccentrica) realtà e (anomala) rappresentazione che essa implica.

In Caro diario non c’è più l’alter ego Michele Apicella dei precedenti film, ma non ci sono ancora i personaggi degli ultimi, dove tendono ad aumentare i filtri e gli schermi tra le storie narrate e la biografia (o, appunto, il diario) del suo autore. All’altezza di Caro diario (e del successivo Aprile) c’è solo Nanni. Ma il massimo di autobiografia, nel caso di quest’ultimo, si traduce in un cortocircuito tanto più personale tra verità e finzione, intimità e contesto storico-culturale, cronaca e trasfigurazione.

Sono microcosmi deformati all’insegna dell’umorismo più surreale, ad esempio, quelli delle Isole visitate nella seconda parte: più che racconti di esperienze vissute, visioni allegoriche su altrettanti modelli di società (dell’assurdo) in cui possiamo piombare e forse siamo già piombati. La società tentata di regredire allo stadio premoderno, alla (sindrome della) capanna, perché, come dice l’isolano di Alicudi Moni Ovadia, «gli esseri umani sono spaventosi». La società del vuoto di riferimenti socio-culturali, nella dittatura dei bambini viziati e teledipendenti di Salina. La società dell’ossessione ipercomunicativa, ultimo sintomo del neocapitalismo cialtrone all’italiana, incarnata dal sindaco di Stromboli (Antonio Neiwiller) che vuole le musiche di Morricone diffuse h24 sull’isola per attirare più turisti della concorrenza. A proposito di fantasia che, tanto più oggi, ha saputo anticipare la realtà.

Certo delle doti profetiche del cinema di Nanni Moretti si è detto già molto (fin troppo), ma forse non abbastanza rispetto a questo film, le cui immagini e i cui ironici (fino a un certo punto) fantasmi sono ancora i nostri, persino più di quanto non lo fossero ieri: la salute, le contraddizioni della scienza e dei suoi sacerdoti, la dipendenza dai media, l’isolamento. Ma, ancora, non è un eterno presente (postmoderno) quello di Caro diario. Le epoche sono messe (beffardamente) a confronto (come nella sequenza del film italiano) o malinconicamente visitate (il tragitto verso Ostia sul luogo dell’omicido Pasolini). L’autonarrazione quotidiana individuale è inseparabile dal rapporto con la storia collettiva, come dalla coscienza critica dell’ecosistema (iper)mediatico.

E però, al contempo, Caro diario insiste ad essere (anche, prima di tutto) il racconto di se stesso, vivo e vitale nelle sue frammentazioni interne, nel suo continuo vagare, nel suo seminare spunti, canzoni, battute da zibaldone dei suoi e nostri giorni. E in qualunque epoca e contesto lo si guardi, quel racconto dice e dirà qualcosa sulla natura precaria del nostro vivere, fatto di incontri casuali (anche con Jennifer Beals, perché no?) e scherzi (talvolta crudeli) dei nostri corpi mai del tutto decifrabili. Tra salutari bicchieri d’acqua («Mi hanno detto che fa molto bene ai reni… mi sembra, o a qualcos’altro… insomma, fa bene») e sommovimenti inconsci evocati da sequenze di vecchi film che diventano passi di danza improvvisati. Sorridendo (anche quando ci si prende molto sul serio) delle nostre imperfezioni, in quel diario ci viviamo ancora dentro.

Emanuele Bucci

Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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