Star Wars – Gli Ultimi Jedi – Star Wars è cresciuto e voi?
Gli Ultimi Jedi è forse il prodotto cinematografico più atteso del 2017. Non è necessariamente un discorso di qualità intrinseca del prodotto, o legato ad una qualche fedeltà al franchise, piuttosto, tutto è riassumibile in una questione di direzioni da prendere.
Si è criticato in effetti (molto e per certi versi ingiustamente) l’Episodio diretto da J.J. Abrams perché non aveva preso una posizione netta nei confronti del materiale Lucasiano di partenza. Ne Il Risveglio Della Forza Abrams si limita a rimodellare le linee guida di base di Una Nuova Speranza, ad ammantare il tutto in un’atmosfera straniante e piacevolmente oscura e, soprattutto, ad organizzare un nuovo rapporto tra la disposizione del visivo e lo spettatore. In sostanza al film manca una chiave di lettura forte con cui Abrams semplicemente dà una sua visione della creatura di Lucas a trent’anni dalla sua nascita.
Ci sono, tuttavia, degli spunti, degli indizi, un’intelaiatura che potrebbero prestarsi benissimo a sviluppare un qualche commento critico all’epopea di George Lucas e al posto che dovrebbe occupare nel nostro immaginario, curioso notare, tuttavia, come da un lato colui che si è incaricato di unire i punti e di approfondire questa lettura critica di Jedi e Sith sia qualcosa di molto simile ad un ultimo arrivato, ad un outsider (Rian Johnson ha diretto parecchio in tv ma Gli Ultimi Jedi è appena il suo terzo film) e dall’altro come il nucleo di questa analisi, di questo commento, sia tanto lucido quanto violentissimo.
È vero, Gli Ultimi Jedi è la tematizzazione lunga due ore e mezza di uno scontro. Il punto, tuttavia, è che non si tratta (non totalmente, almeno) di uno scontro generazionale, tra i giovani e vecchi, tra due generazioni di eroi e villains, come si è letto in questi giorni.
Fermarsi a questo significherebbe limitarsi a grattare la superficie di un problema ben più complesso e, soprattutto, interpretare nella maniera non corretta la maggior parte degli input che ci offre il film. In effetti, se è vero che Gli Ultimi Jedi dovrebbe essere il film in cui le nuove generazioni trionfano sul passato imbolsito è altrettanto vero che la diegesi non è, nella maggior parte dei casi, tenera nei loro confronti. Il party dei giovani eroi si divide tra piloti dal grilletto facile con la sindrome del salvatore, guerriere pedine finite in un gioco più grande di loro e disertori perennemente in fuga dai loro fantasmi. Dall’altro lato della barricata, tra i villains, troviamo, tra gli altri, un adolescente costantemente manovrato dal suo mentore e un giovanissimo generale arrivista che pensa più a rafforzare la sua posizione agli occhi dei superiori che a proteggere i suoi uomini. Tra loro si muovono i grandi vecchi della saga, ormai solo “ombre di grandi uomini” (per dirla con Plinio), frammenti della loro passata grandezza.
Non ci troviamo di fronte ad un confronto generazionale, alla distruzione del vecchio a vantaggio del nuovo, no, anche perché, almeno apparentemente, le due controparti, si equivalgono in modo quasi fastidioso sul piano ideologico, tuttavia, sempre di un conflitto stiamo parlando, un conflitto che però scorre quasi in sottotesto rispetto ai proclami di Kylo Ren che afferma che “bisogna distruggere ogni nostro legame con il passato per poter crescere”.
Al centro del sistema della nuova trilogia di Star Wars sembrano esserci in effetti dei personaggi terribilmente umani. Fallibili, egoisti, immaturi, impulsivi, sboccati, insomma concreti, legati alla materialità delle sensazioni e degli istinti, partiamo da qui e vediamo dove arriviamo.
Forse, letto da questa prospettiva, il conflitto che informa Gli Ultimi Jedi assume una nuova profondità. La vera contrapposizione non è tanto quella tra giovani e vecchi, dunque, ma tra due modi diversi di intendere la realtà in cui si struttura la narrazione di Star Wars.
Il punto di partenza consiste nel capire che le due trilogie (quella che inizia nel ’77 e quella contemporanea) non sono distanti tra loro solo per motivi produttivi e tecnologici, ma anche e soprattutto per motivi simbolici, ideologici e legati ai modi in cui si sceglie di rappresentare quella “Galassia Lontana Lontana” e i suoi fondamenti.
A grandissime linee, la prima trilogia può essere assimilabile al Vecchio Testamento. Il bene e il male sono due forze chiare e distinte, a gestire le azioni dei personaggi è un manicheismo che impregna ogni elemento narrativo. Su un piano maggiormente legato alla pura azione, poi, nella prima trilogia al centro della narrazione c’è il viaggio interplanetario e, soprattutto, non esistono (in maniera marcata) elementi quali il dubbio, l’errore o il fallimento (anzi è curioso notare come un animo dubbioso sia uno dei primi sintomi che potrebbe portare al lato oscuro il discepolo secondo i Jedi). L’atmosfera generale è rarefatta, quasi evoca quel distacco dal mondo reale che dovrebbe avere il perfetto cavaliere. Si parla di guerra ma raramente la guerra, per dire, entra a gamba tesa nella narrazione, non tanto parlando di fatti, quanto di effetti della battaglia sul contesto. Per dire, le battaglie nella prima trilogia non sono poche, ma nessuno dei personaggi muore o viene anche solo ferito gravemente durante le azioni belliche. A morire sono sempre le “redshirts”, gli anonimi soldati della ribellione o gli stormtroppers che fanno da contorno alle operazioni delle rispettive compagini. Pensateci, i blaster non lasciano neanche dei segni sulle corazze dei soldati, non aprono neanche delle ferite. La prima trilogia è insomma il regno del controllo. Controllo narrativo, controllo emotivo, (siamo in guerra, eppure nessuno dei personaggi sembra mai perdere il controllo delle proprie azioni, non c’è turpiloquio e anzi questi momenti di “overreacting” sono relegati solamente a particolari parentesi narrative come la rivelazione di Vader a Luke), ma anche controllo del puro visivo (siamo in piena New-Hollywood eppure la trilogia classica è girata come un film della Hollywood classica e i protagonisti, di nuovo, malgrado il contesto bellico in cui sono inseriti, sono straordinariamente “puliti” come i personaggi dei western di John Ford).
La trilogia classica struttura un mondo mitico, quasi fiabesco, perfetto nel suo essere una dimensione in guerra, completamente separato dal nostro ed in cui lo spettatore è invitato ad entrare, a farsi assorbire, proprio perché “sicuro”, organizzato attorno a concetti fissi e riconoscibili per chiunque. La trilogia classica è casa, ed è stata casa per gran parte di noi, ma cosa succede quando questa stessa casa viene distrutta e ricostruita dalle fondamenta?
Il punto è che è esattamente questo che sta accadendo.
Il Risveglio Della Forza ha strappato il velo di Maya, ha rotto l’illusione e ha assestato i primi colpi al sistema. Trent’anni dopo la vittoria del bene la galassia è un posto freddo, buio, cupo, popolato dai relitti della guerra e su cui incombe una minaccia indefinita. La luminosità della prima trilogia non esiste più, sostituita da un senso di straniamento che coglie certamente impreparato lo spettatore più legato a quella che potremmo definire come “tradizione”.
Rogue One, il secondo tassello di questa nuova lettura dell’universo Lucasiano è invece un progetto che punta a far entrare in contatto la creatura di Lucas con il sangue, la terra, le lacrime, la concretezza, la violenza. Mai, in nessun altro film della saga, si è respirato odore di morte come in Rogue One, mai i ribelli sono stati rappresentati come individui pronti a compiere il male pur di ottenere il bene, mai, in passato, lo spettatore ha dovuto fare i conti con sentimenti quali l’amarezza o la vulnerabilità.
Morte, smarrimento, oscurità, dolore, Gli Ultimi Jedi parte da qui, alza la posta e, a differenza dei progetti precedenti inizia a costruire un nuovo universo simbolico.
Abbiamo detto che il film di Rian Johnson alza la posta proprio perché sceglie di fare a pezzi, consapevolmente, i capisaldi della saga di Lucas.
Partiamo col dire che il modello del viaggio, che finora aveva informato qualsiasi altro film della saga viene annullato. Tutto la pellicola è piuttosto una lunga fuga dei ribelli dal Primo Ordine, l’unico viaggio è quello (brevissimo) compiuto da Finn e Rose, un viaggio volutamente privo, tra l’altro, di quell’alone di epicità che contraddistingue, per dire, un viaggio simile, quello su Bespin di Episodio V.
La netta distinzione tra bene e male non esiste più, i trafficanti di armi vendono sia alla Resistenza che al Primo Ordine, le due forze in gioco uccidono, sabotano, compiono il male e fanno tutto ciò credendo di trovarsi nel giusto.
Persino un precedente caposaldo come l’identità dei personaggi (tutti gli enti in gioco in passato sapevano esattamente chi fossero e quale fosse il loro posto nella storia, anche solo perché, di nuovo, sapevano di combattere per la Luce o per il Lato Oscuro) ne Gli Ultimi Jedi viene a mancare. Per gran parte del film non sappiamo se Kylo Ren è vittima o carnefice di Luke, ad esempio e, viceversa, non sappiamo se Luke è improvvisamente impazzito o è ancora cosciente del suo ruolo. D’altra parte la stessa sequenza centrale di Rey nella caverna è un’efficace tematizzazione dello specchio di Lacan e del conflitto di identità che evoca.
Al di là di tutti questi riferimenti, tuttavia, è fondamentale notare come Gli Ultimi Jedi sia prima di qualsiasi altra cosa un film sul fallimento e sull’errore. Inizia con una fuga disordinata dei ribelli dalla loro base, che verrà comunque distrutta dal Primo Ordine. Prosegue con un lunghissimo inseguimento tra ribelli e Primo Ordine e termina con una disperata ritirata dei (presunti) buoni prima che sia troppo tardi e che gli avversari possano schiacciarli. Tra queste due ampie parentesi, numerosissimi atti eroici, spinti però, la maggior parte delle volte, dalla disperazione e dalla rabbia, più che dal semplice coraggio.
Il racconto di Star Wars, meglio, gli intenti del racconto, si modificano. La squadra di Abrams fin dal primo film della nuova trilogia, non vuole più dare al pubblico ciò che il pubblico vuole. Star Wars non può più permettersi di essere la “realtà alternativa” eterea, avvincente, a suo modo pacifica (perché retta da regole chiare) in cui lo spettatore si è perso fino a questo momento, considerandola a buon diritto un porto sicuro in cui scappare per evitare le storture della vita vera. Il franchise di Star Wars, ora, nel 2017 (ma fin dal 2015), ha scelto di non far più parte dei meccanismi del cinema d’evasione propriamente detto. Si è deciso, in sostanza, che Star Wars deve “svegliare” gli spettatori dal loro sogno, deve farli scontrare con la crudezza della vita vera, deve portare in scena le devianze, i dubbi, le imperfezioni del reale.
Star Wars è cresciuto e ha deciso di uccidere il mito, facendolo a pezzi, tenendolo presente ma evocandolo solo alla lontana. Il mito ora è un relitto su un pianeta. Il mito ora è una spada laser spezzata in due.
Star Wars è cresciuto e ha deciso di ampliare la profondità delle sue narrazioni.
Star Wars è cresciuto. Ora però abbiate l’obiettività di porre a voi stessi questa domanda.
Le cose, produttivamente e simbolicamente stanno così e The Last Jedi e gli altri film del nuovo corso sembrano seguire questa nuova chiave di lettura dell’universo di Lucas. Voi che leggete, però, chiedetevi se ogni volta in cui avete eventualmente criticato i progetti legati alla nuova trilogia di Star Wars lo avete fatto perché effettivamente qualcosa non tornava in voi o perché stavate assistendo alla lenta ma inesorabile distruzione dell’universo che vi ha accolto da bambini e che da piccoli chiamavate casa, una distruzione che volevate evitare a tutti i costi.
Star Wars è cresciuto, ma voi lo siete?