Servant – Stagione 1 – Shyamalan ed il gotico digitale

Servant – Stagione 1 – Shyamalan ed il gotico digitale

Parlare di Servant, la serie AppleTv+ recentemente arrivata alla seconda stagione, significa nella maggior parte dei casi infilarsi in un percorso rischioso.

La serie di Tony Basgallop struttura infatti un percorso tematico obbligato, almeno superficialmente, che tira in causa la psicologia dei suoi protagonisti, il rapporto tra ciò che è reale e ciò che è immaginario, l’elaborazione del lutto. In questo caso, tuttavia, proveremo ad affrontare la storia dei coniugi Turner, della tata Leanne e della resurrezione del piccolo Jericho, da una prospettiva diversa, in particolare partendo da M. Night Shyamalan, che dirige alcuni degli episodi chiave di Servant ma che soprattutto ne è il produttore esecutivo.

Ruolo in realtà non ancora così diffuso nei progetti italiani, il produttore esecutivo cura un progetto, collaborando con un regista o uno sceneggiatore ma spesso riesce a infondere, anche in quei progetti di cui segue la lavorazione a distanza, il suo stile, il suo approccio alla materia. Shymalayan in questo senso fa un passo ulteriore e, in particolare, pur osservando Servant a distanza utilizza la serie come un tassello del suo percorso di ricerca artistico, considerandolo, di fatto, come un momento serializzato del suo personale cinema., pur essendo la serie ben innestata nello stile di Basgallop.

Per capire il dialogo di Shymalayan con il progetto seriale, tuttavia, è necessario fare un passo indietro. Probabilmente il vero prologo creativo di Servant avviene tra il 2014 ed il 2015, quando il regista inizia a collaborare con la Blumhouse di Jason Blum. Attraverso la Blumhouse il regista allargherà lo spettro delle sue indagini, analizzando non soltanto la macchina del cinema ed il suo linguaggio peculiare ma spingendosi fino a riflettere sui generi, a metterli in crisi e a tirare in causa le modalità attraverso cui lo spettatore fa esperienza della realtà circostante.

Soprattutto, tuttavia, attraverso la Blumhouse Shyamalan pare voler ridefinire i tratti di uno degli elementi fondanti del suo cinema, il twist finale che ribalta le aspettative del pubblico. L’ormai proverbiale Shyamalan twist viene infatti dapprima depotenziato in Visit e poi istituzionalizzato in Glass, perdendo lentamente la sua natura di strumento utile a destabilizzare il pubblico e divenendo un momento enunciativo, capace di prendere posizione nei confronti del discorso tematico organizzato dal progetto di Shymalayan.

Il regista che si approccia Servant è dunque un cineasta che intuisce come, attraverso il formato seriale, egli possa ampliare ed approfondire non solo le sue ambizioni ma anche il suo campo d’indagine. Come si vedrà, infatti, la serie Apple+ si inserisce perfettamente nelle coordinate recenti della ricerca di Shyamalan, interrogando tanto il cinema quanto il rapporto tra finzione e realtà ma soprattutto approfondendo il suo gioco con le aspettative dello spettatore.

Al di là della sua cornice psicoanalitica Servant è una serie sulle metamorfosi della paura nella società contemporanea. Tra le fila del suo racconto, il vero perturbante su cui riflette la serie di Tony Basgallop non è tanto quello rappresentato da Jericho, bambino/bambolotto morto/vivo ma quello che nasce dalla percezione di una realtà costantemente riscritta dal digitale. Non è un caso che la casa dei Turner, asettica, all’avanguardia, a tratti anonima, funzioni da perfetto correlativo oggettivo di quello che Shyamalan e Basgallop percepiscono come uno spazio digitale freddo e vuoto. Da questo punto di vista la psicosi che grava sulla coppia pare simile a quella che coinvolge due individui intrappolati in uno spazio altro, diverso da quello reale e anche quella catatonia in cui a tratti cade Dorothy, memento improvviso della tragedia da lei subita, potrebbe rimandare anche alla presa di coscienza di chi si sente fuori posto e percepisce che qualcosa, nella realtà che lo circonda, non torna.

Servant, dunque è anche una sessione di terapia volta a far riabituare i suoi protagonisti alla percezione autentica della realtà circostante: la macchina da presa si muove dinamicamente nello spazio, abbraccia ogni anfratto dell’appartamento, si concentra, anche attraverso coraggiose soggettive, sui volti dei personaggi, provando a ricostruire un regime visivo canonico attraverso cui riabituare la vista alla realtà concreta.

Per certi versi, tuttavia, Servant configura una realtà apocalittica, in cui tutto è già inglobato dall’occhio digitale.

Il visivo è frammentato in un continuo gioco tra campo e fuori campo, l’occhio elettronico trionfa sulla concretezza e l’unico modo per fare esperienza del mondo esterno pare essere lo schermo di un dispositivo digitale. Tutto i segni, gli stimoli, gli input, poi, sono ormai parte di un archivio e anche il discorso sul genere horror non può non avere, in sé, un approccio ordinativo.

L’appartamento dei Turner funziona dunque come un gigantesco database dell’orrore cinematografico le cui forme essenziali raggiungono lo spettatore prive della loro tradizionale forza. Servant gioca con il linguaggio dell’horror attraverso un approccio quasi metonimico, in cui un singolo dettaglio, nasconde le linee essenziali di interi sottogeneri. Basta in fondo uno stacco di montaggio al punto giusto per rimandare a decenni di declinazioni horror al cinema, così come è sufficiente una scheggia infilata nella gola del signor Turner riassume l’intera filmografia dedicata al body horror.

Come capita sempre più spesso dunque, è il libero flusso di dati a plasmare il tessuto filmico, a direzionare, come visto, il dialogo tra la serie ed il linguaggio dell’orrore ma anche, a ben vedere a organizzare la cornice temporale in cui si muovono i protagonisti. Non stupisce, in effetti, che la temporalità di Servant sia volutamente esplosa, capace di accogliere senza soluzione di continuità momenti del passato o del presente della personale storia dei Turner, un’entità liquida profondamente disordinata che, semplicemente, non può essere controllata, malgrado i personaggi provino con tutto loro stessi a dare una misura al caos che li circonda con movimenti razionali e misurati, come quelli grazie ai quali Sean Turner cucina i suoi piatti gourmet.

Paradossale, in questo contesto per certi versi disastroso, l’unico contatto che la diegesi riesce a ricostruire con la realtà, con la concretezza, si ritrovi nel modo in cui il Presente finisce per interferire con le coordinate principali dell’intreccio. E dunque ecco che, a ben vedere, tutto il mistero di Servant finisce per scaricarsi su una donna, Leanne, che di fatto pare la vittima perfetta di quella cultura Trumpiana inquinata dal pregiudizio e pronta a giocare liberamente con la verità qualora ne sentisse il bisogno ecco che, ancora, in maniera più evidente, proprio Leanne è in fuga da una setta che l’ha allevata ma che al contempo raccoglie in sé gran parte dell’estremismo contemporaneo recente.

In Servant torna, dunque, arricchito dalla consapevolezza acquisita dai tempi di The Visit, uno Shyamalan che, in collaborazione con Tom Basgallop riscopre il suo approccio militante, curando una prima stagione che pare voler raccontare il suo tempo e le sue contraddizioni come già fece con la tragedia dell’11 Settembre in The Happening e The Village.

Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

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