Vice O La Decostruzione Del Biopic

Vice O La Decostruzione Del Biopic

Vice è la storia di Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti durante l’era di Bush figlio. Vice è la vera storia di Dick Cheney… giusto? Sì. Cioè no. Cioè… è la versione «più simile alla verità» possibile, almeno così ci avverte la didascalia iniziale, che liquida così il dilemma: «Abbiamo fatto del nostro meglio, cazzo». Una premessa in cui è già riassunto l’approccio del regista e sceneggiatore Adam McKay non solo alla materia, ma al genere stesso cui ci si richiama: il biopic, il racconto della vita di un individuo realmente esistito e in qualche modo (nel bene e nel male) fuori dal comune. Ed è proprio questo, troppo spesso, il problema: poche cose sembrano difficili al cinema come raccontare la (vera) vita di un personaggio di pubblico interesse senza (s)cadere nelle trappole dell’agiografia, della retorica celebrativa o anche, quando si tratti di figure particolarmente controverse, nella pur sotterranea e parziale assoluzione. Assoluzione, o celebrazione, voluta o dovuta proprio in virtù di quell’eccezionalità che costituisce il motivo stesso, o almeno il pretesto, della ricostruzione e rappresentazione a uso e consumo delle generazioni presenti e future.

Il mito che nutre la narrazione filmica, allora, finisce sovente col mangiarsela a sua volta, divorandone o comunque ridimensionandone la possibilità di ricercare, sperimentare, problematizzare, (far) dubitare, nel contenuto e (ancora più) nella forma. È un limite da cui non sono esenti, ovviamente, le biografie dei politici, anche qualora il presupposto dei realizzatori sia espressamente critico verso il personaggio trattato. E il film di McKay (alla sua seconda e ancora più ambiziosa puntata satirica nella storia recente americana dopo La Grande Scommessa) è schierato contro Cheney e il mondo di cui fa parte, non c’è dubbio: al gran ciambellano di Bush Jr. non viene risparmiato nessun colpo, dalla corresponsabilità negli abusi di Guantanamo e nel disastroso intervento (condito di fake-news) in Iraq, al conflitto di interessi legato alla petrolifera Halliburton, passando per il sequestro di liberi cittadini stranieri in paesi esteri (l’Italia, nella fattispecie). Tutto questo c’è nel film, ma non basta e non sarebbe bastato per disinnescare la miccia del compiacimento verso la (pur negativa) grandezza del suo protagonista-bersaglio. Ciò che fa davvero la differenza in questo biopic è il suo corrodere dall’interno, con sistematica irriverenza, le regole e i presupposti del genere a cui appartiene. Lo intuiamo, appunto, già da quella prima didascalia, cinica e beffarda nello sbattere davanti ai nostri occhi di spettatori il paradosso chiave di ogni biografia (non solo) cinematografica: il punto interrogativo tra certezza e ipotesi, tra Storia e mito, inchiesta e spettacolo, verità e interpretazione.

Da qui, allora, McKay prosegue, come il sarto della fiaba, vestendo l’ex imperatore-ombra dell’America e del mondo per mettere a nudo non solo lui, non solo una classe politica, non solo un Paese in alcune delle pagine più buie della sua (e nostra) storia, ma le convenzioni stesse del film biografico. Se nelle sequenze iniziali e maggiormente indietro nel tempo (al 1963) ci aspetteremmo l’episodio chiave che sveli almeno una qualità significativa del personaggio, qui al contrario non accade nulla che risollevi ai nostri occhi l’immagine del giovane Cheney: studente di Yale pigro e ubriacone, espulso dal college e riciclatosi come operaio elettrico che se ne frega del compagno a cui si è appena spezzata una gamba. Certo una prima svolta arriva, promessa alla fidanzata e futura moglie Lynn (Amy Adams), ma a ben vedere è imposta e impressa proprio da quest’ultima, che minaccia di abbandonare quell’ometto grassoccio che “puzza di vomito”. Inizia così una carriera politica dove, come portaborse del cinico Donald Rumsfeld (Steve Carrell), la principale qualità (e vocazione) di Cheney è sapersi dimostrare «dedito e umile servitore del Potere». Eppure, come abbiamo detto, il film è comunque un biopic e con le leggi del biopic si confronta: dunque il personaggio Cheney ha (deve avere) effettivamente qualcosa di eccezionale, tale da permettere a quell’uomo silenzioso e riservato di farsi strada e diventare, meno di un ventennio dopo, colui che (lo ricorda una delle prime e più importanti sequenze) detterà la linea di condotta per la nazione più influente del mondo durante i tumulti dell’11 settembre.

E però, anche qui, la conferma di alcuni presupposti del film biografico ci pare più apparente che sostanziale: perché ad emergere e a rivelarsi sempre più decisiva nel racconto non è tanto la straordinarietà del protagonista, bensì quella (spesso ai limiti dell’assurdo) di un contesto storico-politico di cui l’uomo, in un misto di fortuna e medio machiavellismo, agendo nei tempi e con le accortezze del pescatore (immagine riproposta a più riprese dal montaggio) ha saputo certamente approfittare. La politica degli Stati Uniti tra il Watergate e le guerre in Medio Oriente è, non a caso, la vera co-protagonista (e il vero bersaglio polemico) del film: nulla sarebbe stato possibile per Cheney senza la controrivoluzione reazionaria che portò Reagan alla presidenza, né senza un presidente inadeguato come Bush Jr. o senza la «teoria dell’esecutivo unitario», interpretazione dell’ordinamento americano secondo il governo godrebbe di prerogative al di sopra degli altri poteri. E, ovviamente, nulla sarebbe stato possibile senza l’elemento cardine del sistema politico-sociale che ruota intorno al futuro vicepresidente, ovvero la consorte Lynn, che da brava dama di una vecchia borghesia conservatrice vive il proprio desiderio di potere attraverso l’ascesa del marito. L’eccezionalità di Cheney, dunque, è un’anti-eccezionalità, è l’eccezionalità di un contesto che, fatalmente, iscrive già in sé chi lo scriverà. 

Tutto questo, però, non è ancora il modo più significativo attraverso cui McKay gioca col biopic fino a romperlo. È nelle opzioni formali che ogni possibilità di racconto limpido e lineare di una vita storicamente decisiva viene meno. Abbiamo in primo luogo un corto circuito tra la fiction e il documentario militante (dalle parti di Michael Moore, per intenderci) fin dall’incipit: dove alle immagini di Cheney si alternano quelle frammentate e crude dei bombardamenti in Iraq e delle torture sui prigionieri, tenute insieme dal commento sarcastico di una voce over. Voce che, a disorientarci ulteriormente, si rivelerà al contempo dentro (abbastanza da condizionarla) e fuori (abbastanza da poterla esporre e giudicare “dall’alto”) la narrazione stessa.

Ma, oltre questa contaminazione, l’intero film è un vortice di soluzioni che inceppano e irridono volutamente il fluire della rappresentazione biografica: tra fermi immagine satirici (memorabile quello sulla «faccia maliziosa» di Nixon), salti cronologici e geografici repentini e ripetuti, finte (e retoriche) didascalie conclusive con titoli di coda (disattesi) a metà film, sequenze surreali come quella del cameriere Alfred Molina che espone al team di Cheney un menù fatto di forzature assortite dello Stato di diritto. Dove proprio il momento chiave nel cursus del protagonista, di fronte al dilemma se accettare o no la vicepresidenza, è risolto in una delle sequenze più spiazzanti e corrosive per la finzione-ricostruzione biografica: tra un interminabile gargarismo del protagonista in vestaglia da notte, la confessione di impotenza (e ignoranza) della voce narrante e, come surrogato della verità che nessuno conosce, un esilarante dialogo shakespeariano tra Cheney e la sua Lady Macbeth sotto le lenzuola.

Tra le soluzioni e i materiali che portano i codici del biopic al fatale punto di eccedenza non possiamo non citare poi l’uso e le performance degli interpreti-divi, al contempo perfettamente aderenti al proprio ruolo e oltrepassanti i confini di essi. Su tutti, inevitabilmente, c’è un Christian Bale così radicale nella sua prova mimetica, nella trasformazione del proprio corpo ingrassato e invecchiato, da auto-evocarsi implicitamente accanto al protagonista: nella sua estrema restituzione di Cheney, Bale stesso diviene personaggio, studio-caricatura di se stesso, di quella «assoluta abnegazione» che era non a caso il dogma artistico del suo emblematico antieroe prestigiatore. Ogni star sembra richiamare se stessa nella e per la verve con cui evoca polemicamente, in bilico fra trasformismo e (auto)deformazione, il proprio personaggio: difficile, ad esempio, non confrontare il Bush bamboccione viziato di Sam Rockwell con l’infantilismo aggressivo e contraddittorio del co-protagonista di Tre Manifesti a Ebbing,Missouri.  

Anche il concerto di attori ci induce, perciò, a mantenere vigile la coscienza critica verso il (ogni) racconto biografico nel momento in cui ci immergiamo in esso.

Il racconto, non a caso, si consuma senza ricomposizioni grandiose o comunque armonizzanti dei cerchi narrativi: la chiusura della parabola arriva quasi bruscamente, per occlusione delle sue stesse arterie diegetiche, con un montaggio frenetico di inquadrature-ricordi pubblici e privati che soverchia e confonde l’immagine di un Cheney già in decadenza. L’infarto, sembrano dirci i primi piani del cuore nudo sospeso sullo sfondo nero, è la malattia del Potere: e peraltro, forse, non è ancora il suo limite, visto che (in un ulteriore accenno di epilogo beffardamente sbugiardato) può arrivare in extremis l’ennesimo (involontario) agnello sacrificale, vittima comune e inconsapevole di una storia e della Storia, scritta (e narrata) da altri, uomini e donne dei cui miti e capri espiatori è sempre bene diffidare. Ma anche delle biografie di questi (e altri) uomini e donne sarà opportuno non fidarsi troppo, specialmente se a riferircele è un mezzo potente e seducente come il cinema.

Ben vengano allora i mezzi, i linguaggi e i generi comunicativi che insinuano il dubbio su se stessi, tanto più in un contesto mediatico che esorta troppo spesso all’investimento fideistico nelle agiografie o (peggio ancora) nelle autobiografie a mezzo social dei leader (veri o presunti) carismatici. Anche e ancora di più per questo c’è bisogno di reinventare con intelligenza generi come il biopic (politico e non solo). Vice offre un esempio in questa direzione e lo fa, letteralmente, fino alla fine: con un ultimissimo sberleffo dove la consapevolezza (auto)ironica e (auto)critica del proprio codice si conferma non un limite, ma la più potente arma polemica di un film e della sua denuncia.

Emanuele Bucci


Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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