La Ballata di Buster Scruggs: Due Cantastorie E Le Rovine Di Un Immaginario

La Ballata di Buster Scruggs: Due Cantastorie E Le Rovine Di Un Immaginario

Buster Scruggs (Tim Blake Nelson), cantastorie e abile quanto cinico pistolero, viene detto “il Misantropo” da uno dei manifesti che lo vogliono ricercato (vivo o morto), ma lui preferisce un altro soprannome, “l’Usignolo di San Saba”, riferimento alle sue ragguardevoli doti musicali. È lui a dircelo, rivolgendosi direttamente agli spettatori per presentare se stesso e il mondo in cui si muove, quel selvaggio West dove «le distanze sono grandi e il paesaggio è immutabile». Ma non c’è alcun recupero nostalgico dei vecchi miti della frontiera, e la rottura autoironica della quarta parete è solo una delle soluzioni stranianti che fin da subito spezzano ogni impressione (e illusione) di ritorno a qualsivoglia classicità. Perché dietro La Ballata di Buster Scruggs ci sono i fratelli Joel ed Ethan Coen, abituati ad attraversare i generi fondativi del cinema statunitense come tiratori disillusi pronti a fare fuoco sulle convinzioni e convenzioni sbracate nei saloon del nostro immaginario. E, nelle mani dei due veri cantastorie del film, il povero Scruggs si scopre ben presto solo uno (seppur, significativamente, il primo) dei tasselli di un mosaico che non lo vuole né protagonista né perenne narratore. Un mosaico composto dai sei episodi in cui è suddiviso l’intero film: fiabe nerissime e parodie crudeli presentateci come capitoli di un vecchio libro (altro e ancora più sarcastico rimando alla classicità di un genere narrativo e del narrare stesso) le cui pagine e illustrazioni scorrono segnando il passaggio da un racconto-episodio all’altro.

C’era una volta, dunque, non più il West, bensì il suo relitto, disseminato in frammenti. Il discorso che i Coen portano avanti attraverso le sei parabole (di lunghezza e respiro diversi, ma perfettamente coerenti nel quadro d’insieme tracciato) recupera tipi, archetipi e stereotipi del genere di riferimento solo per corroderli e svuotarli dall’interno. La decostruzione del mito è per certi versi ancora più radicale di quella che si svolgeva nelle riletture crepuscolari dei Peckinpah o degli Eastwood: le ballate dei Coen non hanno solo smarrito ogni eroismo, ogni possibile valore positivo su cui fondare una società e un immaginario, ma anche ogni superstite, funerea grandezza nella sconfitta (morale e materiale) di possibili antieroi. I personaggi dei sei episodi di questo film sono piuttosto «materiale umano» (come lo stesso Scruggs definisce le persone), reagenti per beffardi storielle di anonima follia. Rapinatori sfortunati, miserabili impresari di un teatrino itinerante o viaggiatori (troppo) inetti e imprudenti che siano, le figure di questi film nel film restano comunque al di qua di ogni autentico pathos, di ogni afflato tragico che non sia sbugiardato e degradato da uno sberleffo, di ogni forza e pregnanza tale da sublimarne i gesti, gli errori, le meschinità, le squallide sconfitte e le vacue vittorie.

THE BALLAD OF BUSTER SCRUGGS

ntorno a questi personaggi piccolissimi e annaspanti tutto è ridotto al desolato grado zero, a cominciare dagli ambienti: spazi vasti quanto aridi di presenze umane, deserti e steppe dove si ergono isolati saloon e banche, valli rigogliose dove un cercatore d’oro sprofonda, letteralmente, nella sua caccia ossessiva. Oppure, per contrasto, in altri episodi l’ambiente come tale è apparentemente negato e fuggito, in realtà solo subito in modo diverso, nella forma (narrativa e allegorica) di traversate estenuanti: dove fermarsi troppo a lungo può essere fatale o dove al contrario nemmeno il decesso di un passeggero ha facoltà di dettare una sosta imprevista.

Ma ad essere prosciugate, frantumate, negate sono le storie stesse, ciascuna non solo spoglia di risonanza epica e aura drammatica, ma impossibilitata persino (e prima di tutto) a svilupparsi e articolarsi nel respiro del lungometraggio: in questo senso la scelta per il film a episodi non si riduce a un semplice omaggio cinefilo né sembra la maschera di qualche difficoltà a strutturare una narrazione ampia e unitaria, piuttosto si rivela l’ulteriore (e più emblematica) modalità di frammentazione dell’immaginario western. Quest’ultimo è ristretto e fatto regredire per certi versi alla misura delle origini, al primo celeberrimo cortometraggio su una rapina in banca di oltre un secolo fa. La postmodernità avanzata (e autocritica) di un genere si specchia nel suo passato remoto e si confessa, oggi come (e più di) allora, incentrata principalmente (se non unicamente) sul bisogno atavico di possedere e di sopraffare che rende l’uomo tanto più stupido e ridicolo agli occhi della stessa natura: ciò che paiono suggerire, non a caso, gli animali-spettatori della feroce, grottesca parabola del cercatore d’oro Tom Waits.

Tutto perciò è abbassato, svilito, deformato, parodizzato, frantumato nella Ballata. Della mitologia epica in cui una nazione tentò di riconoscersi, sublimarsi e (ri)narrarsi restano le (caricaturali) rovine, messe a nudo ed esposte, come ogni cosa del mondo, alla caducità del tempo, proprio come la statua di Ozymandias nella celebre poesia di Shelley, qui recitata dal ragazzo senza arti esibito nel baraccone dell’impresario Liam Neeson. Ma non è una distruzione fine a se stessa quella attuata dai Coen, e lo svuotamento radicale del mito è il primo, necessario passo per rimettere in funzione quei materiali umani, narrativi, simbolici, in una modalità nuova, come significanti di un altro discorso, che è poi quello (da) sempre portato avanti nelle opere più significative dei due autori. Questo discorso riguarda l’assurdità, la precarietà, la sovrana incertezza dell’esistenza. Ancora una volta, cioè, i Coen entrano nelle pieghe e nelle strutture di un genere per decostruirle e riplasmarle in funzione della propria (mai troppo seria e mai troppo faceta) riflessione sul (non-)senso della vita, riflessione intrisa di un nichilismo mai sterile e superficiale: perché è al servizio di una poetica dell’apertura, sia pur cinica e acida, alle ragioni (e alle follie) del dubbio, il quale vieta ogni (ri)chiusura in un pessimismo di maniera. Non a caso ogni episodio del film si può leggere in chiave di ribaltamento (o di più ribaltamenti) di una certezza (della narrazione e dell’immaginario di cui si nutre): i protagonisti (e le star) si rivelano presenze effimere, gli anziani banchieri “indifesi” sono più pericolosi dei ladri, i più sicuri di sé e delle proprie convinzioni sono le prime vittime delle casualità, e via così.

La sola massima che resta possibile, allora, è quella pronunciata da Billy (Bill Heck) ad Alice (Zoe Kazan) nel penultimo episodio: «L’incertezza è il giusto modo di approcciare questo mondo. Solo della fine ci è stata concessa certezza». Non per nulla il principale filo conduttore di ogni episodio, più ancora della violenza e del caso, è proprio la morte: unico frammento di tempo e di realtà davvero indubitabile, tema dell’ultima canzone di Scruggs, approdo decisivo e destabilizzante della lunghissima conversazione tra gli ospiti della diligenza nell’ultimo episodio. Ed è proprio nel sesto racconto, dove i Coen danno il meglio della loro capacità di intessere dialoghi e costruire rappresentazioni in bilico tra farsa e apocalisse, che vengono tirate le somme del film (e non solo). Perché quell’ultimo apologo-sequenza, quasi tutto risolto (salvo l’epilogo tanto più allegorico) nell’interno della diligenza in movimento, sembra alludere proprio alla grottesca corsa dell’esistenza: una corsa determinata dalla morte (sul tetto del mezzo è trasportato un cadavere) ma indifferente ad essa; una corsa che prosegue mentre la fotografia dipinge e sottolinea il passaggio dalle tinte del giorno a quelle della notte, mentre i punti di vista dei viaggiatori si intrecciano e scontrano riguardo agli uomini, alla morale, all’amore e infine proprio alla morte. La morte conclude inevitabilmente ogni discorso dentro e fuori dal film, la morte mangia, irride e corrode tutto, western e relativi miti compresi: ma proprio nell’accettare quest’unica, inevitabile certezza, la nuova parabola sul dubbio dei fratelli Coen vive e fa (ri)vivere le macerie del suo stesso mondo.

Emanuele Bucci


Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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