Ghost Stories: I Fantasmi, L’Orrore, L’Hauntology

Ghost Stories: I Fantasmi, L’Orrore, L’Hauntology

Paradossalmente, in questo caso, la curiosità nasce da un’apparente incomprensione iniziale.

Nel 2018 (dopo alcune anteprime nei festival nel 2017) esce in sala Ghost Stories di Jonathan Dyson ed Andy Nyman. Il film, clamorosamente, ottiene il favore della critica specializzata, che lo considera da subito come un instant cult e che lo elegge tra i film rivelazione dell’anno. Hanno effettivamente ragione. Il film, nella sua solida essenzialità, è straordinario per la capacità che ha di giocare con i generi, con gli archetipi delle storie dell’orrore, con la tradizione horror inglese e per saper utilizzare proprio il genere come base di partenza per riflessioni più complesse e stratificate ma tutto ciò, a ben vedere, non basta a dare una spiegazione sufficiente del fenomeno.

La reazione positiva scatenata dal film di Dyson e Nyman è stata talmente nazional popolare, ha coinvolto un pubblico così vasto e variegato, semplici spettatori, non addetti ai lavori, che tutto ciò non può far altro che stimolare la volontà di approfondire ulteriormente il discorso. Come ha fatto un film così sui generis, non solo per il modo di dialogare con le forme della rappresentazione ma anche perché nato in un contesto apparentemente così distante dal cinema propriamente detto (Ghost Stories è prima di qualsiasi altra cosa uno spettacolo teatrale scritto da Dyson e Nyman, in cui Nyman recita, come nel film, la parte del protagonista andato in scena nei teatri off di Londra fino a quando non si è deciso di trasporlo al cinema) e, soprattutto, perché gestito da due individui che, di fatto, occupano una zona limbica in rapporto alla settima arte (Jonathan Dyson è prima di ogni altra cosa un drammaturgo, non un regista, Andy Nyman è un’illusionista affermato, prima di essere attore).

Istintivamente, la sensazione è che l’intreccio, l’organizzazione del racconto, la messa in scena, il tessuto tematico del film riesca in qualche modo a dialogare con una zona sopita dell’inconscio dello spettatore, organizzando una comunicazione al tempo stesso profonda e appagante per chi guarda, un dialogo capace di schiudere orizzonti di significato sconosciuti agli spettatori. Per capire, tuttavia, i termini di questo dialogo, dobbiamo partire da lontano, dobbiamo avvicinarci al film prendendoci il nostro tempo.

L’impostazione del progetto Ghost Stories è assimilabile ai più classici film “a ribaltamento di prospettiva”.

Lo spettatore viene inserito in un contesto che egli considera in qualche modo leggibile, la cui leggibilità e chiarezza vengono continuamente ribadite proprio dalla diegesi salvo che proprio la diegesi decida, proprio sul finale, di ribaltare le regole del gioco, di stupire lo spettatore con un finale che non solo è inaspettato ma che soprattutto si pone come sequenza che rimette in discussione praticamente tutto ciò a cui chi guarda ha assistito fino a questo momento.

È una sorta di evoluzione del plot twist, meccanismo narrativo che da Ai Confini Della Realtà arriva fino ai progetti di M. Night Shyamalayan e che in Ghost Stories riemerge come struttura portante di un meccanismo narrativo di profonda eleganza.

Al centro di Ghost Stories c’è Philip Goodman, psicologo che da anni si propone di smascherare attraverso gli strumenti della scienza e della ragione ogni singola manifestazione paranormale a cui si trova davanti, siano essi dei medium truffatori o un caso di possessione demoniaca. Probabilmente dice continuamente a sé stesso e agli altri che lo fa per mestiere ma, con più probabilità (e come veniamo informati dalla serie di home movies in Super 8 che ci accompagnano durante i titoli di testa), il suo desiderio di ridurre tutto ai minimi termini del Reale deriva da un conflitto mai risolto con il padre, severo ebreo praticante che, proprio a causa del suo estremismo religioso ha reso la vita impossibile alla moglie e ai due figli, tra rigide regole da seguire e reazioni di terribile violenza ogniqualvolta le stesse regole finivano per essere infrante da uno dei membri della famiglia. Non è difficile associare dunque alla religione, all’elemento metafisico, una dimensione da cui Goodman cerca costantemente (sebbene inconsciamente), di distanziarsi, utilizzando proprio il suo costante rapporto con la realtà oggettiva come metodo prediletto di demistificazione.

Fin da subito, fin dai primi secondi, Ghost Stories si configura come un progetto che pone al centro l’inconscio, la dimensione interiore del suo protagonista, un’interiorità che ha radici ben piantate nel passato di Philip Goodman, tuttavia ecco che, al termine dei titoli di testa, ogni riferimento a tutto ciò che è stato il protagonista, a tutto il suo “ieri”, alle sue esperienze del passato vengono, per così dire, dimenticate, sopite (silenziate potremmo dire, come farebbe un inconscio che vorrebbe rendere inoffensivo qualcosa che potrebbe danneggiarci) e la narrazione preferisce concentrarsi su un (almeno apparentemente) presente.

Ghost Stories si articola dunque in tre episodi, tre atti durante i quali Goodman si incarica di indagare (a tratti controvoglia) su tre avvenimenti apparentemente soprannaturali, gli unici tre eventi su cui il suo mentore ha deciso di non esprimersi, incapace anche lui di comprendere il dominio d’appartenenza di ciò con cui si è confrontato.

Il primo passo per comprendere il nucleo profondo di un film come Ghost Stories parte proprio dalla riflessione attorno alla natura stilistica e tematica di questi tre segmenti.

Il centro narrativo di Ghost Stories sembra nascere infatti al punto di contatto tra forze in conflitto.

In particolare, nel tessuto del film di Nyman e Dyson si assiste ad un confronto continuo tra il presente e un passato costantemente ricreato a partire da spunti precedentemente esistenti. Ghost Stories è girato e pensato in ossequio agli stilemi e alle atmosfere dei film della Hammer, la casa di produzione che, di fatto, ha teorizzato le regole base del Gotico Inglese al cinema ma ha in sé, anche, un germe straordinariamente contemporaneo, quello della serialità, dell’antologia, dell’intrattenimento in parti o a puntate. Ad un livello di riflessione ancora più profondo, è abbastanza evidente quanto il film punti a intessere uno stretto legame come quella che potremmo definire “estetica del low-fi” o “estetica della bassa fedeltà”. La tecnologia sembra in buona sostanza fare un passo indietro nel film di Nyman e Dyson. Qualcosa ci dice che l’azione si ambienta al presente ma alcuni dettagli, siano essi la quasi completa assenza di telefoni cellulari o dei modelli di auto smaccatamente anni ’70 e ’80 spostano la cronologia della storia almeno una trentina d’anni indietro.  Al contempo, pensando agli elementi della messa in scena, Ghost Stories non può che distanziarsi dal modo di intendere l’horror nel cinema contemporaneo: i jump scares sono ridotti al minimo così come gli effetti digitali, la gestione dell’elemento orrorifico è affidato alla pura atmosfera, ma soprattutto si può notare quanto ogni presenza, entità soprannaturale, siano essi fantasmi, poltergeist, entità demoniache e simili, siano straordinariamente fisiche, concrete: alcune si orientano e prendono contatto con il mondo circostante tramite il tatto, altre si confrontano con il mondo dei vivi distruggendo beni materiali (come l’auto della seconda parte), altre ancora giocando con la disposizione dell’arredo di una casa (il poltergeist della terza parte). Quando possibile, sulle entità soprannaturali con cui si confronta lo scettico Philip è possibile vedere i segni delle loro sofferenze: le ferite, il sudore, le lacrime, il sangue, anche solo il semplice fiato affannato.

È insomma un contesto “straniante” quello in cui Philip vive il suo viaggio, un ambiente composito, famigliare e al contempo distante, ma che tuttavia rimane di difficile definizione nei suoi caratteri essenziali. Abbiamo capito che un ruolo preponderante nella sua costruzione lo ricopre la tecnica del prelievo ma sarebbe forse troppo avventato definire proprio per questo Ghost Stories come un film postmoderno. Il “deposito culturale” da cui vengono effettuati i prelievi sembra essere troppo specifico, ancor meglio, troppo personale, circoscritto, relative ad un contesto, ad una situazione troppo definita per essere considerata postmoderna.

Prevedibilmente, è proprio l’ultimo atto ad offrirci una chiave di lettura efficace non solo in merito a quanto stiamo guardando ma relativamente al contesto di ambientazione della storia.

Nel twist finale veniamo a sapere infatti che quanto visto finora è una sorta di sogno lucido di Goodman, sopravvissuto ad un tentativo di suicidio ma in coma, che ha inconsciamente utilizzato infermieri, dottori, inservienti della clinica in cui è ricoverato per organizzare una narrazione che (come viene chiarito dal finale), utilizza l’elemento soprannaturale per fare i conti con un rimorso che lo ha tormentato finora.

È qui che il film si schiude in tutta la sua chiarezza. 

Di base c’è un’assimilazione. Goodman considera il rimorso alla stregua di un demone che lo tormenta da quando, da bambino ha lasciato morire un amico vittima dei bulli senza fare nulla per impedirlo (demone che, effettivamente vediamo seguire il protagonista nel corso di tutta la narrazione e palesarsi a lui durante l’epilogo).

Partendo dal rimorso Philip costruisce un mondo a sua misura in cui prova a confrontarsi anche inconsciamente con quell’Altro, con quel paranormale che finora ha sempre rifiutato ma che, forse, può in questo caso aiutarlo a espiare le sue colpe. Perché se è vero che il suo è un ambiente oltremondano che contempla mostri e demoni è allo stesso modo vero che quando si parla di mondo sovrasensibile si parla anche di religione (nel suo caso l’ebraismo), strumento principale, per alcuni, per trovare conforto e purificazione dal peccato e dal rimorso.

E allora ecco che il mondo illusorio ma dannatamente reale in cui si muove Philip è una dimensione da un lato straordinariamente di cartapesta, uno spazio che man mano che procede la narrazione rende evidente, in alcuni casi, la sua natura derivativa, l’elemento prelevato, il suo essere spazio posticcio (addirittura letteralmente se pensiamo a cosa dà il via al twist), quasi che l’unica reference, l’unico riferimento in mano a Goodman per ricostruire l’elemento paranormale del suo spazio limbico sia quella offerta da ciò che la sua esperienza di professionista ha visto (medium da strapazzo, possessioni fasulle) e da ciò che, chissà, lo ha segnato da ragazzino (appunto i film dell’orrore della Hammer), dall’altro saldamente ancorato al passato, nello specifico a quella metà degli anni ’70 in cui la sua formazione religiosa ha raggiunto il culmine (il film si apre con i filmati dal suo Hannoukah dal sapore ‘70s) e in cui gli strali conservatori del padre erano più forti, incisivi.

E allora ecco che il film diventa terapia di ricostruzione di un contesto passato che (anche Goodman lo sa), non c’è più e non può essere recuperato, malgrado ogni ulteriore tentativo, ogni nuova iterazione di una narrazione sempre più simile ad un loop senza fine, malgrado egli stesso quasi si punisca, per il tramite dei suoi “assistiti”, terrorizzati da fantasmi ed entità maligne che li aggrediscono, li graffiano, li tormentano, li feriscono nel corpo, prima che nella mente.

Forse già questo, già questo suo stratificare sopra ad un ottimo horror un discorso così profondo e universale come l’elaborazione di un rimorso, potrebbe riuscire a spiegare le ragioni di una presa così forte di Ghost Stories sul pubblico, ma, ad avviso di chi scrive, il discorso può essere approfondito ancora un poco in questo senso.

Simon Reynolds, uno dei critici culturali più importanti degli ultimi anni la chiama Hauntology. Si tratta della capacità che hanno determinati brani, determinati film, determinate strutture culturali, provenienti da un passato a volte anche idealizzato, di “infestare” (e certo l’utilizzo di un termine del genere parlando di un film horror non è un caso) il presente, di rapportarsi allo spettatore contemporaneo organizzando nel suo inconscio un discorso universale. L’Hauntology, che di fatto si struttura attorno alla riemersione nel presente di vecchi motivi, vecchie canzoni, vecchi film, sconosciuti filmati televisivi, rimessi in circolo a creare qualcosa di nuovo, riguarda un passato, un ricordo, che è straordinariamente personale ed universale al tempo stesso. È il tuo passato, è il tuo ricordo ma è anche il ricordo di tutti noi.

È chiaro, a posteriori, che in maniera silente, quasi non ufficiale, la Hauntology finisce per sedimentare in Ghost Stories. Qua e là, durante la narrazione, spuntano canzoni anni ’70, atmosfere eteree tipiche di certo intrattenimento televisivo inglese anni ’60, spunti di significato emersi dal passato, addirittura il riferimento alla Hammer è un ancorarsi ad un modo di fare cinema e televisione che non si fa più e che è ricco di ricordi per chi guarda.

È proprio quest’Hauntology silenziosa ma assolutamente forte e presente, questo rapporto con il passato che è al contempo personale (di Goodman) e straordinariamente universale, di chiunque guardi il film, perché chiunque ha ascoltato un determinato pezzo alla radio, chiunque, in Inghilterra, da ragazzo ha visto uno dei film della Hammer, che forse è la carta vincente di Ghost Stories, il desiderio di ricostruire senza imbarazzi un rapporto senza filtri tra opera, inconscio e fruitore.

Alessio Baronci

Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

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