Dumbo – Quando Burton Torna A Casa

Dumbo – Quando Burton Torna A Casa

Sono passati tre anni dall’ultimo film di Tim Burton, “Miss Peregrine- la casa dei ragazzi speciali”.  I fan aspettavano con impazienza questo suo nuovo film, che, all’uscita nelle sale, ha però creato reazioni contrastanti. A tutti è evidente che il regista si trovi in una delle sue profonde crisi cicliche, dalle quali di solito esce con dei film che lo riportano e riconnettono al suo io più profondo, al suo immaginario.

Il primo grande ritorno fu nel ’94 con Nightmare Before Christmas (non suo solo nella regia, proprio per delle insicurezze di fondo che presumibilmente l’hanno spinto ad affidarsi al suo collega Henry Selick, ma di fatto questo rimane un film burtoniano), a cui seguirono alcuni dei suoi migliori e più famosi film, il secondo periodo ha il suo apice nel 2007 con Sweeney Todd – il diabolico barbiere di Fleet Strett. Dal 2010 con Alice in Wonderland sono seguiti una serie di film poco a fuoco nell’ottica burtoniana, a volte centrati nel tema ma di difficile accostamento, soprattutto nei due casi, uno dei due precedente ma che già metteva in luce le medesime problematiche, in cui Burton si è cimentato col cinema biografico (Ed Wood e Big Eyes).

Con Miss Peregrine c’era stato quello che sembrava uno spiraglio di luce della fine del tunnel, un’uscita dal periodo oscuro che avrebbe dovuto essere consacrata da Dumbo, suo ultimo film, portato a termine dopo tre anni di lavorazione.

Uno spettatore che guarda questo film ma non conosce a fondo la filmografia e la carriera di Burton lo troverà sicuramente gradevole, la storia ricalca piuttosto fedelmente l’originale Disney, con le dovute modifiche di cui si parlerà in seguito, l’animazione è impeccabile e gli attori sono tutti in parte, soprattutto il malefico Michael Keaton, al suo ritorno con Burton dai tempi dei due Batman e di Beetlejuice. Ma ai fan questo non basta. Qualcosa di Burton in questo film sfugge ancora, non è del tutto centrato e sicuro delle proprie scelte.

Partendo dall’elemento più evidente, non è chiaro chi sia il protagonista di questo film. Di getto si potrebbe rispondere “ovviamente è Dumbo il protagonista, il film porta anche il suo nome!”; se ci si sofferma tuttavia sulle singole scene, l’elefantino è effettivamente il motore e uno dei personaggi principali della storia, ma c’è qualcun altro che gli contende il diritto di protagonista, rendendo così di fatto ambigua questa figura.

La storia dei due bambini e loro stessi sembrano infatti i protagonisti di questa storia, rendendo così difficile ritenere Dumbo il protagonista e rendendo palese, primo dei tanti punti manifesti, un conflitto di vedute tra il regista e la casa di produzione, risolto con un compromesso che non fa contento nessuno, soprattutto lo spettatore.

Per Burton ovviamente sono i bambini il centro del racconto, per i produttori, che pensavano di ottenere un remake come i precedenti e quelli che seguiranno, è lo storico elefantino.

Nonostante Burton e la Disney abbiano una conoscenza più che ventennale e abbiano avuto già in altri tempi dei problemi relazionali, dimostrano di non aver imparato niente e ricadono nei vecchi conflitti. Le soggettive dell’elefantino sono interessantissime, cosa che farebbe sperare in un film visto a misura di animale incantato, ma le azioni poi smentiscono questa visione e il film diventa una pellicola pienamente rivolta ad un pubblico di bambini, non aiutando però lo spettatore ad immedesimarsi né con l’uno né con gli altri.

A questo punto la vera domanda è: “che storia stiamo raccontando? La storia di chi?”. La storia di Burton o della Disney? I paletti della casa di produzione sono lampanti: la dinamica madre/figlio elefanti maltrattati, la separazione, il ritrovamento, gli elefanti rosa (usati in maniera del tutto gratuita e poco approfondita, cosa che li fa percepire come un paletto che il regista ha adattato come meglio poteva alla narrazione) e ultime ma forse le più sconcertanti, le inquadrature di product plasement dei peluche di Dumbo, venduti in tutti i Disney Store odierni, oggettivamente incalcolabili per chiunque si approcci anche da lontano al cinema.

La risposta corretta sembrerebbe essere che questo è il film della Disney con qualche coloritura burtoniana un’autorialità che può solo entrare in gioco durante la promozione del film.

Che questo sembri un tentativo di sfruttamento dell’immagine del regista è evidente. La Disney ha fatto il suo film (allo stesso modo come sarà probabilmente anche con Il Re Leone), lasciando a Burton il poco spazio che potevano dargli, affinché comunque potesse essere riconosciuto come un suo film e associare così il marchio al nome del regista.

Chi conosce la carriera di questo regista e i suoi altri film Disney (Alice in Wonderland aprì la stagione dei remake in live action della Disney), non può non domandarsi il perché questa volta il volere di Burton non sia riuscito ad imporsi sul volere della casa di produzione.

Con Alice in Wonderland l’intenzione, poi bene o male riuscita, era quella di prendere il classico Disney e renderlo a misura di Burton, in un certo senso elevare un film d’animazione a film in live action che potesse parlare alla generazione cresciuta con Alice nel paese della Meraviglie ma allo stesso tempo alla generazione che conosce questo come primo esempio di quella storia. Stavolta è stato diverso.

Il film non è diventato a misura di Burton, ma si è nascosto sotto l’ala sicura della madre Disney, lasciando Burton da solo e impegnato a dare la sua impronta solo dove gli è stato possibile, senza mai imporsi prepotentemente come nei casi precedenti.

Alla fine del film il tema che ne emerge è burtoniano: non è la famiglia che ti da la nascita la tua vera famiglia ma quella che scegli e che ti crei. Cosa vera a metà, solo per la parte più spiccatamente rispondente alla poetica e allo stile di Burton, ovvero quella legata ai momenti in cui gli umani occupano la scena (esempio lampante è tutta la storia del direttore del circo, interpretato da Danny De Vito, che si è creato una famiglia falsa per poi riconoscere a fine film che la sua vera famiglia era quella dei membri del circo), perché la parte animale ritrova invece la famiglia d’origine, andando in contrasto col tema che dovrebbe essere principale, dando allo spettatore però il contentino che l’elefantino non dimenticherà mai la sua famiglia umana che l’ha riunito a sua madre, rientrando cosi nel tema principale.

In questo film tutto è duplice, tutto ha due facce, tutto manifesta il conflitto di due entità artistiche che non hanno trovato una chiave comune. Che cosa ha spinto Burton a questo infruttuoso compromesso? Per il regista che non si è mai piegato al volere della produzione che cosa è cambiato ora per fargli chinare il capo fino a questo punto? Una possibile risposta è contenuta nel film: quando sei insicuro e hai perso tutto torni a casa dove ti senti sicuro. La crisi di Burton non è ancora passata del tutto, cosa che non lo fa ancora sentire del tutto al sicuro di sé stesso da fargli accettare le proprie decisioni, ma demandandole a qualcun altro e limitandosi ad eseguire un compito affidatogli da qualcun altro.

Degli spunti della sua visione creativa ci sono, ma sono del tutto annacquati da sovrastrutture imposte e che evidentemente stonano con la sua visione e con tutto il resto, creando un film godibile solo per chi lo guarda senza legare nulla al passato del regista. Pensando di trovare un porto sicuro, Burton è tornato a casa tra le braccia della Disney, braccia che, come dimostra la sua storia, non sono sempre state accoglienti, anzi inizialmente del tutto respingenti.

Si può dire che Burton, nella sua insicurezza che lo domina da quasi dieci anni, si sia nascosto all’ombra di un grande colosso per pensare, riflettere e capire se ha ancora qualcosa da dare creativamente. La speranza è che questo, che comunque è un film che parla sia alla generazione che è cresciuta col film d’animazione sia alla nuova, sia il primo confuso tentativo di uscire da una crisi profonda del regista e un primo ancora non compiuto tentativo di ritrovare se stessi e la propria voce, forse il metodo meno corretto, ma comunque un tentativo. Da questo momento si spera parta il terzo capitolo della carriera di Tim Burton, da cui ci aspettiamo ancora tanti ottimi film, colmi della sua poetica e della sua particolare visione sul mondo, ancora molto carente in questo suo ultimo film.

Sabrina Podda

Sabrina Podda

nata nel ’92, incontra il cinema fin dall’infanzia, che da fedele compagno di crescita diventa motivo di vita e introspezione; laureata in cinema con una tesi sull’evoluzione della stop motion nei film di Tim Burton, aspira a diventare regista di storie non ancora raccontate e di quelle già narrate, offrendone un nuovo punto di vista; collabora con Liberando Prospero per offrire prospettive interpretative alternative sui film altrui e nuovi spunti di riflessione attraverso le proprie realizzazioni; a tal proposito, dà vita alla Firefly Productions, una nuova realtà che farà luce nelle zone buie della ripresa video (cinematografica e non), illuminando prospettive finora mai realizzate.

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