Knives Out – Le Rovine, Il Gioco, L’Antidoto
Di fronte a noi c’è, probabilmente, uno dei cineasti più importanti degli ultimi quindici anni.
Non perché Rian Johnson sia particolarmente dotato in cabina di regia (meglio, lo è ma non è questo il punto della questione) ma perché il nostro uomo è uno dei pochi artisti ed intellettuali che ha perfettamente compreso la natura profonda dei tempi in cui ci troviamo e che ha saputo convertire al meglio i suoi caratteri essenziali attraverso il medium cinematografico.
Partendo da concetti cari al postmoderno quali la frammentazione degli input, la citazione, le interferenze tra alto e basso, la logica del prelievo, Rian Johnson si è spinto fino ad attraversarli e ha votato la sua carriera artistica alla ricerca di una forma filmica che potesse rendere sulla scena questa crisi nello storytelling e nel linguaggio ora colta nel pieno del suo svolgimento e non più osservata da lontano in lento avvicinamento. Il punto non è come risolvere la crisi, come sopravviverne, il punto è capire come raccontarla, sembra dirci Johnson attraverso il suo cinema.
Ed è così che le sue opere sono istantanee da un paesaggio di rovine, un contesto che magari conserva, in controluce, in negativo, un certo gradiente di riconoscibilità (il noir di Brick, la fantascienza di Looper, addirittura l’intero impianto tradizionale di Star Wars) ma che non può far emergere tutte le sue anomalie in rapporto ad un contesto consolidato. Al centro di questo dualismo c’è, ovviamente, lo spettatore, che si ritrova invariabilmente spiazzato dal dialogo che Rian Johnson imbastisce con lui, che spesso lo accoglie timidamente e che, altre volte, finisce per rifiutarlo (pensiamo a tutta la querelle polemica nata dalle frange di fan più tradizionaliste dopo The Last Jedi).
Il punto, tuttavia, è che l’errore non è né in Rian Johnson né nel suo cinema, il quale, anzi, conserva ad oggi una chiarezza argomentativa e uno sviluppo invidiabile, il centro del problema sta piuttosto nella sua velocità di maturazione.
Rian Johnson ha capito a tal punto il contesto socioculturale in cui opera che il suo cinema è più simile ad un’entità autonoma, che si nutre del reale, del presente, di spunti, prelievi dalle dimensioni culturali più svariate, di sottintesi, un blob che ragiona per conto suo e che sembra instaurare un dialogo realmente proficuo soltanto con il suo creatore, lasciando, spesso, a chi guarda, solo stralci, schegge di un disegno la cui ampiezza e importanza reale non può che sfuggire allo spettatore il più delle volte.
Ciò che serve, a questo proposito, è forse una sorta di guida al cinema di Rian Johnson, una tassonomia ragionata per comprendere davvero, in tutte le sue sfumature, il metodo di lavoro del regista. Per farlo, dunque, perché non partire proprio dal suo ultimo film, che rappresenta, giocoforza, il punto ad oggi più maturo del suo approccio alla scena?
Nell’imbastire il suo discorso attorno a Knives Out Rian Johnson parte, è abbastanza evidente, dal giallo nello stile di Agatha Christie, le cui coordinate essenziali egli rimescola e riorganizza ad arte fino a strutturare l’intero progetto su un terreno straordinariamente malfermo.
La sensazione è che con Knives Out Rian Johnson giochi coscientemente con il pericolo e metta a serio rischio la sospensione dell’incredulità dello spettatore. La sua architettura narrativa potrebbe cedere, almeno ad un occhio poco attento, da un momento all’altro, vuoi per la cornice metatestuale che rende all’apparenza evidenti gran parte delle svolte iniziali del racconto, vuoi a causa di un racconto che procede all’inverao e che devia dal giallo procedurale classico nel momento in cui ci si rende conto che stiamo seguendo la colpevole di un omicidio involontario nei suoi tentativi di nascondere le prove a suo carico.
La griglia attraverso cui è più utile leggere Knives Out è piuttosto quella del gioco. Non il superficiale divertissment, piuttosto l’intelligente momento ludico attraverso cui un’entità saggia, illuminata, prova a far comprendere ad altri un concetto difficile da interiorizzare ed accettare.
Knives Out gioca con lo spettatore su due livelli. Il primo è quello più evidente ed è quello, come si diceva, del giallo classico, che invita chi guarda a scoprire il colpevole di un omicidio stando bene attento a non cadere nei tranelli e nelle deviazioni della diegesi, accompagnando il detective nella scoperta della verità. Il secondo reticolo ludico è quello attraverso cui questa stessa struttura mistery viene mandata in frantumi.
Per Rian Johnson la crisi è già avvenuta e non possiamo che raccogliere e soppesare i frammenti di questa distruzione. Se esiste un modo per confrontarsi con questo contesto a suo modo tragico esso non può che fare a capo ad una sorta di ironia che dovrebbe essere l’antidoto con cui assorbire, filtrare e mitigare tale negatività.
Ed in effetti Knives Out è un film profondamente ironico, in cui lo spettatore si ritrova a sorridere di un riso intelligente e distaccato conseguente alla presa di coscienza di tutte quelle falle, di tutti quei nei, che finiscono per fare capolino volutamente all’interno di un meccanismo altrimenti solidissimo e che rendono evidente quel sentore di distruzione che è al centro del cinema di Johnson.
Knives Out è un giallo in cui il colpevole è tale per un assurdo gioco del destino e in cui, a ben guardare l’omicidio di partenza non è neanche un omicidio, in cui si fa satira su una famiglia americana che vorrebbe ricalcare la classe della borghesia inglese del ‘900 ma che invece altro non è che una congrega di razzisti, classisti dell’alt-right, in cui vigono le regole dell’ipocrisia e in cui l’eroe è (di nuovo, ironia della sorte) un’immigrata latina.
A generare la risposta ironica, il riso distaccato, sono dunque questi costanti impatti tra atteso e inatteso e che, di fatto, generano concretamente quegli spunti, quelle schegge, che rimandano alle rovine di un immaginario da cui prende le mosse il cinema di Johnson.
Sia ben chiaro, ovviamente, che questo contrasto non riguarda solo il tessuto tematico o il puro storytelling del film ma anche alcuni elementi preponderanti della forma filmica. Tra i molti esempi, pensiamo a come il solido impianto registico accolga spunti visivi a tratti maggiormente sperimentali, a come il personaggio di Daniel Craig sia costantemente in bilico tra l’essere un detective tutto d’un pezzo e la sua parodia, a come, ad esempio, la scenografia si caratterizzi per elementi chiaramente prelevati dall’immaginario popolare che si pongono come vere e proprie interferenze nel continuum visivo (la sedia del patriarca così simile al Trono Di Spade).
Knives Out è in sostanza una cartografia visiva per sopravvivere alla crisi, un progetto che non cerca scorciatoie, che assorbe le rovine e che le riorganizza in un flusso costante che vuole porsi come terapia per aiutare chi guarda ad orientarsi in questo contesto limite, invitandolo ad un distacco difficile da raggiungere ma possibile.
Alessio Baronci