Marvel’s Daredevil Capitolo II: One Batch, Two Batch, Penny And Dime

Marvel’s Daredevil Capitolo II: One Batch, Two Batch, Penny And Dime

Si potrebbe partire dal nulla, o meglio, da una particolare forma di nulla, l’annullamento del sé. Senza piegarci troppo ad un nichilismo di maniera, potrebbe essere proprio questa la chiave d’accesso per iniziare ad addentrarci nelle profondità di un personaggio come il vigilante armato un tempo noto come Frank Castle.

Fa quasi impressione dirlo ma se c’è una cosa che accomuna lui, oscuro ex agente delle forze speciali americane ora convertito a crociato in missione per ripulire la città dalla criminalità che la tiene in ostaggio e noi, spettatori delle sue operazioni, forse allo stesso modo ostaggi della sua presenza, proprio perché inquietantemente impossibilitati a distogliere lo sguardo da ciò che sta facendo, impossibilitati ad opporci a lui, anche solo ideologicamente, perché non possiamo far altro che sostenerlo, appoggiarlo, condividere la natura della sua missione, per quanto controversa essa possa apparire è proprio quest’annullamento. Annullamento del sé. Annullamento di Frank, che dopo la morte della sua famiglia diventa nulla ed in quanto puro nulla (nulla “burocratico”, “politico”, perché nessun documento riconducibile alla sua identità esiste più dopo l’attentato, ma anche nulla “sentimentale”, perché dopo che le sue ancore emotive, i figli e la moglie, sono stati uccisi, Castle è più simile ad un guscio vuoto privo di sentimenti) si muove nei quartieri degradati di New York per dare alla città quella forma di giustizia distorta che tanto egli ha atteso ma che mai è riuscito ad ottenere, seguendo un modus operandi che contrappone la precisione e la cura strategica dell’attacco ad un bersaglio ad una sorta di annullamento dell’archetipo dell’uomo – cacciatore (Castle non sembra seguire una particolare “via” nella ricerca dei suoi bersagli, per lui chiunque sia armato ed abbastanza ambizioso da iniziare una scalata nel sottobosco criminale è automaticamente una minaccia per la sua città). Annullamento che è anche un po’ nostro perché, come ho detto poco fa, probabilmente il modo migliore per far accettare al nostro subconscio le azioni che Frank compie sullo schermo, guidato da un distorto senso di giustizia, è quella di annullarci noi stessi, in quanto spettatori, e rivedere il nostro senso critico almeno per il tempo in cui il Punitore è sullo schermo, perché ciò che fa Castle è troppo impegnativo da accettare sul piano etico? Forse, e tuttavia, probabilmente, si potrebbe approfondire ancora di più il senso di questa risposta, come si vedrà tra poco.

E dunque, questo viaggio che sto per iniziare servirà non tanto (e non solo) a delineare un profilo del Punitore di Netflix, quanto piuttosto a capire come mai, in un modo o nell’altro, Frank Castle è forse l’unico antieroe verso cui tutti noi, senza ombra di dubbio, ci siamo trovati a parteggiare. Tre atti, tre parti, tre scalini che ci condurranno nel punto di contatto ultimo tra NOI e LUI, nel tentativo di comprendere quella che è forse una delle verità più scomode da riconoscere per noi in quanto spettatori.

Still da “Marvel’s Daredevil”

One Batch: Punizioni, Pallottole, Schegge Impazzite

C’è qualcosa di straordinariamente tradizionale nella prima apparizione del Punitore di Joe Bernthal nella serie. Quando Gerry Conway concepì per la prima volta il personaggio del vigilante con il teschio pensò di trattarlo come villain, almeno inizialmente, salvo poi riservarsi il (sadico) piacere di poter far intraprendere alla sua creatura un arco di evoluzione tale da dotarlo, tempo un anno, un anno e mezzo al massimo, di tutti i caratteri dell’eroe al servizio del bene, insomma, in una sola, singola frase: da cacciatore di ragni ad alleato dello spara ragnatele nel giro di qualche mese. Il dettaglio straordinariamente interessante in questo senso è che per Drew Goddard e per gli altri ragazzi della writer’s room il personaggio di Frank Castle non è, appunto, un “personaggio” ma un terreno operativo su cui strutturare una caratterizzazione del Punitore che sia, prima che coerente con il fumetto e rispondente allo spirito iniziale del personaggio nell’impronta di Conway, semplicemente, cosciente del contesto socio-culturale in cui va ad inserirsi. “Cosa tengo e cosa lascio andare nel momento in cui ho deciso di scrivere la mia versione del Punitore?” è questa, semplicemente questa, la domanda in due parti che ha funzionato da faro guida per il team di scrittura nel momento in cui questa strana entità creativa si approccia alla progettazione della serie ed è solo provando a rispondere a questa domanda che possiamo quantomeno tentare di addentrarci all’interno del vero e proprio tessuto di significati che porta il nome di Punisher. E dunque, (la premessa di poco potrebbe già aver detto molto in questo senso) è abbastanza chiaro che se c’è qualcosa del Castle fumettistico che Goddard ed il resto della squadra decidono di tenere e reinserire nel flusso della caratterizzazione del loro Punitore è proprio il suo essere un’entità di difficile catalogazione all’interno dell’universo Marvel (forse l’unica che si muove effettivamente tra due estremi psicologici così distanti in quel contesto). Per le prime due o tre puntate della serie, noi spettatori Frank Castle neanche lo vediamo: lo sguardo della macchina da presa (quello che è in fondo il nostro sguardo) arriva sempre un attimo prima o un attimo dopo il passaggio del vigilante. In questo modo assistiamo o agli ultimi respiri dei suoi bersagli o ai rilevamenti della polizia nei teatri delle varie stragi ed operazioni di Frank e tuttavia, almeno in un primo momento, la diegesi non ci dà mai la possibilità di guardare Castle negli occhi mentre agisce. Si potrebbe pensare che tutto ciò faccia parte di un meccanismo di difesa per lo spettatore, il quale, almeno secondo gli secondo gli sceneggiatori, non è ancora pronto per fare i conti con un personaggio così complesso e negativo e tuttavia, fermandoci a questa considerazione non faremmo altro che scalfire la superficie di un’argomentazione ben più complessa di quanto appaia. Stiamo assistendo infatti fin d’ora, fin dal confronto con questo piccolo dettaglio di caratterizzazione, al processo di rimessa in gioco, all’interno di un immaginario collettivo ormai irrimediabilmente modificato dal contatto con i media e con un pubblico che ha imparato a rapportarsi in una maniera completamente nuova con il concetto di Male, del personaggio di Frank Castle. La base caratterizzante da cui si parte è la stessa del fumetto e tuttavia il modo in cui questa base viene sviluppata non può essere più lontana dal mondo del racconto cartaceo ed al contempo più vicina ad un certo modo di intendere il racconto nel cinema classico: c’è un alone quasi retrò in questa volontà paradossale di nascondere il male nel tentativo di esorcizzarlo e tuttavia ottenendo l’effetto contrario, ammantando di potenza ed inquietudine le azioni di un personaggio al confine tra l’umano ed il super umano. In fondo, con i dovuti distinguo, il cinema espressionista ragionava allo stesso modo. 

Still da “Marvel’s Daredevil”

E tuttavia, se è vero che agire all’interno di una griglia di caratterizzazione del personaggio completamente libera vuol dire giocare fondamentalmente con il concetto di media cinematografico ed espandere, grazie al sistema della settima arte i tratti psicologici base di Frank Castle ed il suo impatto con lo schermo, arrivando a considerare per questo il mezzo televisivo come una sorta di gigantesco parco giochi, un’esperienza ludica con cui divertirsi e far divertire lo spettatore, è abbastanza curioso notare come sia valida anche una considerazione di valore contrario. Lo abbiamo visto poco fa, quando Frank Castle fa il suo esordio sulla carta stampata il suo codice morale è certamente ambiguo e tuttavia, a lungo andare, il pubblico si è abituato a considerare il mercenario con il teschio un combattente tra le fila dei buoni. È normale che si assista a questo arco evolutivo, anzi, è anche giusto, per certi versi e tuttavia, non è altrettanto vero che una situazione del genere ci soddisfi in quanto spettatori. Un manicheismo del genere (prima un personaggio completamente negativo, poi una “conversione” ai limiti del comodo, più per necessità di aumentare l’empatia con il pubblico e dunque gli incassi che per desiderio di approfondire la sua psicologia) sa di vecchio, è irreale, soprattutto, viene assolutamente rifiutata da un inconscio collettivo ormai abituato a progetti seriali che si dilungano per decine di puntate al fine di sviluppare la caratterizzazione di un qualsiasi agente di scena in tutte le sue parti. Questo strano arco di Castle è presente anche nella serie di Goddard (è, fondo, ciò che la writer’s room sceglie di tenere rispetto al materiale presente nel fumetto) e tuttavia, anche in questo caso, queste linee di caratterizzazione non sono altro che puri mattoni, meglio, pura creta da modellare secondo le necessità della narrazione e della caratterizzazione del personaggio. Una volta capito che si hanno a disposizione tredici puntate da un’ora su cui strutturare l’arco narrativo di Frank Castle e dunque qualcosa come tredici ore totali in cui poter gestire una caratterizzazione che finalmente risulti approfondita (piuttosto che una decina di albi da una manciata di pagine ciascuno), in primo luogo quel senso di manicheismo superficiale che sulla carta caratterizzava l’evoluzione del Punitore sparisce ed assume i tratti di un viaggio coerente nella psiche di un uomo distrutto dagli eventi, ma soprattutto, si assiste a qualcosa di estremamente particolare: un po’ come hai già fatto con personaggi come Don Draper o Walter White, tu spettatore arrivi a dubitare dell’atteggiamento di Castle. L’uomo che stai guardando, è, semplicemente, troppo impulsivo, folle, mentalmente a pezzi per compiere una qualsiasi decisione strategica razionale. Il Castle di Goddard è un pazzo con un arsenale per le mani e con tutte le capacità e le abilità per organizzare una piccola guerra. Deve essere fermato? Per Goddard e gli altri questa non deve essere una nostra preoccupazione, ci penserà la diegesi (o il Diavolo, più semplicemente) a risolvere il problema, tuttavia, ecco se c’è qualcosa che noi in quanto spettatori possiamo fare nel rapportarci a Castle è, semplicemente, utilizzare un certo senso critico per capire esattamente chi stiamo guardando, meglio, con chi stiamo entrando in contatto emotivo. Il Punisher di Goddard è un villain? No, quello senz’altro no, anche perché gli autori non tradirebbero mai fino a questo punto la fonte originale; è un antieroe? Sarebbe una definizione troppo semplice per un personaggio del genere. Ma allora con chi abbiamo a che fare? Semplice, di fronte a noi c’è un personaggio multiforme, nei confronti del quale ognuno di noi può entrare in contatto come vuole, secondo il proprio sentire, senza mai però poter evitare, quella strana sensazione di confrontarsi con un personaggio borderline, costantemente intrappolato in un limbo di incomunicabilità che da un lato blocca la sua ricerca della verità e dall’altro lo fa apparire molto meno “eroico” di quanto in realtà sia mai apparso fino ad ora, sensazione tra l’altro straordinariamente ben amplificata dalla writer’s room che puntualmente costella la narrazione di elementi legati alla storyline di The Punisher che non fanno altro che far traballare la sua già precaria caratterizzazione in questo senso (come il suo intervento al salvataggio di Daredevil sul finale, clamorosamente esaltante ma al contempo straordinariamente forzato oppure il volutamente poco approfondito omicidio dei suoi familiari, nel fumetto elemento scatenante della trasformazione di Castle, nella serie dettaglio mai troppo approfondito, un po’ come a voler dire che Frank è sempre stato un po’ instabile, non serviva certo la strage della sua famiglia per scatenare il mostro). Di nuovo dunque, il Punitore della serie Netflix appare come una sorta di scheggia impazzita all’interno della cultura visiva contemporanea, sorta di perfetto punto di contatto tra la tradizione del cartaceo e l’inconscio collettivo di colui che guarda, a tal punto che la sua caratterizzazione arriva a mettere in dubbio tutto ciò che chi legge (e che guarda) aveva conosciuto fino a quel momento di lui.

Still da “Marvel’s Daredevil”

Two Batch…: Il Diavolo Ed Il Teschio

Se si volesse sintetizzare con un’immagine il rapporto che intercorre tra Frank Castle (che di fatto è il villain della storyline almeno nella sua prima parte) ed il diavolo di Hell’s Kitchen si potrebbe utilizzare senza problemi quella di un uomo che sta affondando nelle sabbie mobili. È strano, in fondo avrei potuto scegliere un simbolo ben più aggressivo o “tradizionale” per certi versi, per descrivere un sistema di forze apparentemente così violento, una pistola, un mitra, un personaggio che conficca il pugnale nel costato del suo avversario e tuttavia, probabilmente l’optare per un’immagine così paradossale ma al contempo così efficace fa il pari con un rapporto che definire paradossale è il minimo. Basta in realtà pochissimo per comprendere come, anche in questo caso, il primo passo per addentrarci in questo rapporto tra entità sceniche, è il riconoscere quanto in realtà, in quanto spettatori, ci troviamo a muoverci in una zona liminale. Malgrado le premesse, i confronti tra il Diavolo di Hell’s Kitchen ed il vigilante sono minimi, dal dubbio esito e soprattutto, dalle modalità e dallo svolgimento per certi versi inaspettati. In primo luogo ci troviamo di fronte a scontri in cui l’elemento psicologico sembra avere la meglio: Castle non spara praticamente mai contro il suo avversario, anzi, l’unico colpo che parte dalla sua arma manca volutamente qualsiasi organo vitale di Matt Murdock e va a conficcarsi nel casco protettivo della sua armatura; al contempo non possiamo neanche definire senza problemi le lotte tra queste due entità come prettamente fisiche. L’unica scazzottata propriamente detta tra il Diavolo ed il Vigilante è uno scontro a pugni estremamente coreografico e tuttavia al contempo portato avanti da due uomini che si picchiano senza troppo convinzione. In sostanza è un pari senza vincitori né vinti, con l’avversario (Murdock) che viene sconfitto più per sottomissione che per effettivo knockout. Non sono le armi, a strutturare lo scontro tra queste due entità sceniche, non sono neanche i calci o i pugni, ma allora qual è la chiave di volta di questo confronto? Ebbene fa strano dirlo ma il confronto tra il Diavolo ed il Teschio è uno scontro sentimentale, ed è abbastanza chiaro che questo sentimento fondante sia la paura. 

Still da “Marvel’s Daredevil”

Tuttavia, descrivere questa lotta con l’aiuto di un solo termine appare riduttivo. Se davvero è la paura a tenere le fila di questo scontro, sia chiaro che si sta parlando di un sentimento multiforme, capace di rimanere sé stesso per tredici puntate, ma anche di cambiare forma, di approfondirsi, di espandere il proprio orizzonte simbolico. Forse l’unica vera esperienza legata ad una forma pura di paura Matt la prova nel momento in cui la pallottola lo colpisce in testa e cade privo di sensi per una decina di metri, ecco, quella sì, quella è paura e tuttavia, da quel momento in poi la situazione cambia. È (ancora) paura ma non è più completamente solo paura, quella che prova il giovane avvocato quando, legato ed immobilizzato su un tetto, impossibilitato a fare qualsiasi cosa e costretto ad assistere impotente alle azioni di Castle, si ritrova a confrontarsi con il suo carceriere riguardo ai loro metodi operativi di vigilanti, fino a chiedersi chi tra i due sia davvero in torto, se lui, che compie il male per ottenere il bene protetto ipocritamente da quella fede cattolica che sembra giustificare il senso delle sue azioni o Castle, sicuramente più violento ma anche, curiosamente, molto meno ipocrita e più “sincero” e diretto nei confronti di quella società che intende proteggere. È paura, lo si è detto, ma è una sfumatura molto particolare di paura, molto simile al dubbio, all’incertezza che aggredisce il proprio io e fa mettere in dubbio la propria integrità morale ed il senso della propria azione, è un sentimento che al netto dei fatti è per certi versi molto più pericoloso, subdolo, rispetto alla pura paura, forse perché tende, lento ed inesorabile, ad immobilizzare, a bloccare colui che lo prova (e qui è straordinario il parallelismo con un Devil legato sia interiormente che esteriormente). Il punto più alto di questo trattamento del sistema psicologico sotteso alla serie si raggiunge nell’ultimo atto della sua prima parte. Dopo uno dei turning point più destabilizzanti degli ultimi anni, un Punitore in manette sale sul banco degli imputati per sostenere il processo che probabilmente finirà per condannarlo alla sedia elettrica. A sostenere una difesa estrema dell’imputato c’è lo studio Murdock, che dopo una serie di udienze apparentemente interminabili, riesce ad ottenere il patteggiamento di Castle. Qui però il tessuto simbolico della serie sembra aprirsi. In un primo momento il vigilante accetta di ammettere le proprie colpe, salvo poi rimangiarsi tutto in tribunale e fondamentalmente fare a pezzi tutto il castello difensivo organizzato da Matt e Foggy. È una svolta narrativa, questa, che colpisce lo spettatore in maniera diretta e quasi gratuita, a tal punto che chi guarda non si rende neanche conto del vero potenziale di quanto ha appena visto e tuttavia, forse conviene spendere qualche parola su quanto è appena avvenuto in scena. È, in fondo, un’ulteriore forma di paura quella che vediamo in azione qui, una paura che aggredisce nuovamente Devil stavolta mascherata, per certi versi, da un sentimento legato ad una sorta di perdita di identità. Murdock è stato trasportato sul suo terreno operativo (il tribunale) ed è stato sconfitto in maniera gratuita ed insensata dall’ultima persona da cui si aspettava una mossa del genere, il quale ha fatto a pezzi ogni suo sforzo lasciandolo praticamente con nulla in mano. Guardando la questione da un’altra prospettiva, l’azione di Castle priva il Diavolo di Hell’s Kitchen della terra sotto i piedi ed in un certo senso lo abbatte non tanto per il suo essere azione sconsiderata ed inaspettata ma in quanto azione che priva il protagonista di un qualsiasi orizzonte di cambiamento e miglioramento. È un po’ come se Murdock fosse stato privato della sua identità di avvocato, rappresentante legale delle forze del bene ed esponente di una categoria professionale che porta alla luce del sole, che ammanta di liceità, quella difesa dei deboli che Matt svolge anche di notte venendo però considerato, almeno all’inizio, alla stregua di un vigilante fuori controllo. Destabilizzato da quel primo confronto con Frank sul senso delle sue azioni, ora il Diavolo di Hell’s Kitchen viene fondamentalmente annichilito nella sua essenza. Già, perché se il mondo non vuole che tu sia un vigilante e le circostanze fanno in modo che tu venga privato anche della tua professione rispettabile, allora che cosa sei? Che cosa ti rimane?

Nello scontro tra il Punitore e Daredevil dunque riemerge nuovamente quell’elemento estraneo, quella scheggia impazzito che abbiamo imparato a conoscere poco fa e che contribuisce a ridefinire il tessuto di significati che regge la serie. Un confronto che ci si aspetta essere dinamico diventa inaspettatamente statico, un conflitto fisico si trasforma in un conflitto dialettico, fondato sulla parola più che sulle pallottole, più sul gioco di forze che sulla forza bruta.

Still da “Marvel’s Daredevil”

Penny And Dime: Castle E Noi

Viene da chiedersi a questo punto, quasi in chiusura, in appendice, che tipo di rapporto può intrecciarsi tra il Punitore e noi spettatori che lo guardiamo agire sullo schermo. Qualche riga fa ho detto che, in quanto personaggio dalla psiche multiforme, ognuno di noi può entrare in contatto con il personaggio di Frank Castle come meglio vuole, senza mai dimenticare però di esercitare quel senso critico che mai dovrebbe mancare nello spettatore quando si avvicina a personaggi di questo tipo. Poche parole per un definizione forse rapida ed efficace ma al contempo incompleta: come mai dovremmo esercitare un senso critico di questo tipo a contatto con la psicologia di Castle? Solo perché ci troviamo di fronte ad un personaggio così ambiguo? No, o meglio non proprio. Facciamo saltare in aria l’elefante nella stanza: il Frank Castle di Netflix non è solo ambiguo è letteralmente un personaggio scomodo. In lui si concretizzano, lo abbiamo visto durante tutto questo viaggio, i lati più oscuri che contraddistinguono l’interiorità di ciascuno di noi, perché signori, è inutile girarci intorno, ognuno di noi può essere altrettanto vendicativo, calcolatore o semplicemente malvagio. Se a questo si aggiunge il fatto che Castle agisce in scena, dunque espone questa sua interiorità, in modo comunque carismatico e seducente per lo spettatore (bene o male The Punisher è il personaggio preferito di molti spettatori e la recente notizia che Netflix dedicherà al personaggio una serie stand-alone è stata accolta con il clamore che ci si aspettava) si comprende come in realtà la caratterizzazione del Frank Castle, meglio l’impatto che tale caratterizzazione ha sullo spettatore, è a tal punto profondo da meritare un attimo di riflessione. Fa strano dirlo, ma ci troviamo di fronte ad una situazione che ricorda molto il contesto delle prime proiezioni cinematografiche un centinaio d’anni fa, occasioni sociali in cui il pubblico sperimentava su di sé l’empatia, il desiderio di essere come i protagonisti delle storie che stava guardando sullo schermo, momenti in cui gli spettatori, semplicemente, volevano vivere le avventure che in quei momenti potevano solo vedere. Una parte di noi, di tutti noi, la più oscura, meglio, la più nascosta, vorrebbe essere esattamente come Frank Castle, anche solo perché di fronte a noi c’è un uomo che mostra in sé un coraggio, una risolutezza o più semplicemente una resistenza al male che accade attorno a lui che ognuno di noi vorrebbe avere, una parte di noi, di tutti noi, sta provando su di sé, di fronte allo schermo, quella stessa empatia istintiva, semplice, priva di sovrastrutture che i primi spettatori provavano durante le primitive proiezioni cinematografiche. Riconoscere ciò significa anche rileggere anche sotto una nuova luce alcune delle scelte narrative o simboliche che abbiamo incontrato qualche paragrafo fa. Oltre che con questi aspetti positivi della caratterizzazione di Frank, il rapporto empatico che il pubblico instaura con lui fa entrare in contatto gli spettatori con tutto ciò che di negativo nasconde la sua personalità, un’occorrenza, una possibilità che se non può essere disinnescata deve essere quantomeno contenuta. Ecco dunque che scelte stilistiche quali l’arco del personaggio che cede in alcuni tratti o il suo essere eroe a volte troppo freddo anche per il sistema verso cui si contrappone, sono sì dettagli che servono ad approfondire la caratterizzazione di Castle ma funzionano anche come puntelli utili a distaccare (“epicamente” direbbe Brecht) il Punitore e tutto il sistema di valori che esso trasporta con sé da noi che lo guardiamo. La domanda ora è: questo distacco ha effettivamente funzionato o non ha fatto altro che ottenere l’effetto inverso? 

Alessio Baronci



Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

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