“Star Trek”, pro e contro di una nuova rotta- capitolo II: “Picard” e l’utopia che invecchia

“Star Trek”, pro e contro di una nuova rotta- capitolo II: “Picard” e l’utopia che invecchia

«Siamo qui per questo. Per salvarci a vicenda». Forse è valsa la pena seguire la prima stagione di Star Trek: Picard anche solo per giungere a questo momento, a questa frase pronunciata dal suo protagonista nell’ultimo episodio: in queste parole, scandite da un ammiraglio (ed ex capitano) Jean-Luc Picard all’apice dello sforzo fisico, emotivo ed etico, non meno che da un attore al momento topico della sua (notevole) maratona interpretativa, sta uno dei momenti più alti della nuova serie, e probabilmente quello in cui si tocca, più emblematicamente, il pieno potenziale offerto da una saga, da un universo narrativo creato oltre cinquant’anni fa.

Perché, al di là della trama, dei personaggi e delle loro evoluzioni, in quel frammento di dialogo, col primo piano su un uomo anziano e allo stremo ma ancora (e tanto più) teso a lanciare un (disperato?) appello in nome della cooperazione (in luogo della competizione e del conflitto), della conoscenza (in luogo della conquista), del dialogo (in luogo del pregiudizio), sta non solo la sintesi della poetica (e dell’utopia) di Star Trek, ma la sua capacità non comune di agganciarsi ai nodi e ai drammi dell’attualità: non è forse la rimessa in discussione di steccati, dogmi e sistemi deleteri pregressi, in nome di un rinnovato progetto per risollevarci (insieme) da una crisi senza precedenti, la posta in gioco per “salvarci” (anche) nel reale (difficilissimo) momento presente?

Come altri grandi racconti fantascientifici, allora, Star Trek nei suoi momenti migliori anticipa (oltre a rispecchiare) l’attualità e suggerisce spunti a quest’ultima, rielaborandone dilemmi e tensioni per nutrire la propria drammaturgia in evoluzione. Passaggi come questo danno senso alla scommessa (audace) di aver rimesso in viaggio, vent’anni dopo l’ultima missione, il capitano Picard, già protagonista della seconda, amatissima serie tv del franchise, The Next Generation, dal 1987 al 1994, quindi di quattro successivi film della saga, fino al 2002.

Ciò non vuol dire, d’altronde, che la nuova serie co-ideata dall’eminenza creativo-produttiva di tutto il “nuovo corso” di Star Trek, Alex Kurtzman (qui coadiuvato dagli autori Akiva Goldsman, Michael Chabon e Kirsten Beyer), si mantenga sempre all’altezza di brani come quello appena citato. Al contrario, Picard, con le sue idee valide, ma anche con i suoi limiti, pone ancora molte contraddizioni dell’attuale gestione del franchise (mentre si sforza, riuscendoci solo in parte, di superarle).

Rispetto alla serie inaugurata nel 2017, Picard parte da un vantaggio non da poco (che l’altra colma solo con la svolta in chiusura della seconda stagione): sceglie di andare oltre, cronologicamente e non solo (almeno nelle intenzioni). Finalmente, insomma, gli autori provano a sviluppare la narrazione di un universo che, fino al 2002 (con l’ultimo, infelice film di Next Generation, non a caso), aveva proceduto espandendosi, aggiornandosi, rimettendosi in discussione (o tentando, con esiti alterni, di farlo). Il tramonto dello Star Trek di Rick Berman (erede di Roddenberry alla gestione del franchise per tutti gli anni Novanta e primi Duemila), ma anche l’alba del nuovo corso di Kurtzman e Abrams, con prodotti come Enterprise, i tre film del re-boot, e le prime stagioni di Discovery, hanno scontato lo stesso paradosso: voler raccontare storie nuove rintanandosi nel passato, nella cronologia (poco o molto) prima della serie classica, o in una versione alternativa e ammodernata di quest’ultima.

La serie con Patrick Stewart, finalmente, prova a guardare avanti, e questo permette di introdurre innovazioni (sul piano sia visivo che narrativo) che in buona parte non rompono la coerenza interna dell’universo di Star Trek, perché non si vanno a scontrare con ciò che abbiamo visto prima, bensì mostrano quanto avvenuto dopo. Se le tante libertà e gli aggiornamenti visivi e tecnologici di Discovery stonavano in larga parte con l’ambientazione prossima alle imprese di Kirk & soci nella serie di fine anni Sessanta, Picard risolve il problema alla radice. E può divertirsi a mostrare un universo che, pur fra tracce evidenti di ciò che è stato, nel corso di vent’anni è mutato radicalmente, prima di tutto a colpo d’occhio (e d’orecchio), fra astronavi che si pilotano con display olografici e una presenza inedita di termini e concetti dal (nostro) mondo digitale. Si può discutere su quanto funzionino, da questo punto di vista, le singole trovate, ma la sensazione è quella di una (ri)trovata libertà nell’aggiornare (finalmente) microcosmo e macrocosmo diegetico senza incongruenze grossolane. Perché, stavolta, siamo tornati (davvero) a esplorare il futuro.

Soprattutto, però, la serie osa (e può permettersi di farlo) nel proporre un cambio delle atmosfere, uno sguardo diverso sulle (non più così) magnifiche sorti e progressive dell’utopia. Ed è questo, forse, il motivo di maggior interesse della prima stagione di Picard, che nel mostrarci un universo più cupo, caotico e violento di come l’avevamo lasciato, sembra parlarci (anche) della difficoltà a far (ri)vivere Star Trek nell’epoca odierna, dove proprio le utopie sembrano quasi completamente (e definitivamente) archiviate nella soffitta dell’immaginario collettivo.

Ma che quella tensione utopica rimanga in qualche modo dolorosamente viva lo dimostra proprio il protagonista, le cui massime e i cui principi sono quelli dell’esploratore-diplomatico illuminista di ieri che però, vent’anni dopo, sembra un elemento estraneo, anziché un’espressione emblematica, dell’universo di cui fa parte: la Federazione dei Pianeti Uniti, esasperando spunti di passati film (Rotta verso l’ignoto, L’insurrezione) e serie (Deep Space Nine) non è mai stata così ostaggio di complotti, compromessi negativi e (soprattutto) pregiudizi. Il nuovo equipaggio dell’ex capitano è un gruppuscolo raccogliticcio segnato da tensioni irrisolte e diffidenze reciproche, ben diverso dalla “famiglia felice” di roddenberriana memoria che popolava la vecchia Enterprise di Picard.

Persino i personaggi storici della saga sono la versione indurita e incattivita di se stessi (come Sette Di Nove/Jeri Ryan) o vengono travolti nelle loro buone intenzioni dai nuovi, spietati tempi (Hugh/Jonathan Del Arco). Non stupisce allora che Riker/Jonathan Frakes e la consorte Deanna Troi/Marina Sirtis abbiano scelto di ritirarsi nell’unica vera isola di serenità mostrataci dalla serie (Nepenthe, nell’omonimo episodio), dove peraltro le ferite emotive del ventennio trascorso non cessano di seguirli. Ai rappresentanti della vecchia (e invecchiata) utopia, insomma, sembrano rimasti solo l’auto-esilio, la morte o il compromesso col paesaggio cinico e crudele che l’universo è diventato. Ed è proprio Picard/Stewart a (voler) rompere questo schema, con la sua missione e il suo reiterato appello etico in (e per) un futuro che ormai non lo vuole più, ma dove forse si può rilanciare lo spirito di un tempo.

Il problema, però, è che questa chiave di lettura, con gli ottimi spunti e i momenti interessanti e intensi che schiude, non si declina sempre in una scrittura all’altezza. La prima stagione di Picard nel suo complesso soffre di un ritmo discontinuo, tra eccessi verbosi e sequenze d’azione spesso non all’altezza del pathos che vorrebbero creare. Ma soprattutto, la trama principale, se sviluppa in modo relativamente inedito il ruolo e la parabola delle forme di vita sintetiche (Data e i suoi “discendenti”) nell’universo di Star Trek, non è nulla di nuovo nel contesto più ampio della fantascienza odierna: dove i dilemmi delle coscienze androidi e i conflitti di queste con gli umani sono (già) esplorati con ben altro grado di profondità (pensiamo a Westworld). Al coraggio nella volontà di aggiornare l’immaginario della saga non corrisponde perciò (neanche stavolta) un soggetto in grado di reggere il confronto con i prodotti più innovativi del medesimo genere.

La sceneggiatura, poi, mostra la corda fra elementi che non vengono valorizzati al meglio (pensiamo al Cubo Borg, ridotto nel conflitto finale a poco più che una scenografia), forzature (non da ultima quella che conclude “a sorpresa” la stagione) e caratterizzazioni deboli, di cui fanno le spese soprattutto i nuovi personaggi: poco probabili alcuni (i due romulani ospiti dello Chateau Picard), penalizzati altri da eccessi didascalici (la sin troppo “malvagia” Sutra/Isa Briones) o da plot-twist a ripetizione che ne gravano la credibilità (la dottoressa Giurati/Alison Pill).

Manca, nel complesso, quella capacità di valorizzare le sfumature che caratterizzava i migliori episodi dello Star Trek (soprattutto televisivo) “maturo”, quello (non a caso) delle migliori stagioni di Next Generation (e non solo): dove il confine tra giusto e sbagliato si metteva sovente in discussione nelle scelte non scontate, nelle situazioni (che riflettevano la complessità delle crisi socio-politiche e gli interrogativi etici della contemporaneità) e nelle sfaccettature dei personaggi.

I limiti di Picard, da questo punto di vista, sono analoghi a quelli degli ultimi tre film e di Discovery, e storicamente affliggono qua e là specialmente i lungometraggi del franchise: dove l’ambizione di costruire narrazioni più spettacolari di quelle confezionate per la tv si è rivelata nei momenti peggiori (pensiamo a Nemesis) un boomerang, traducendosi in caratterizzazioni troppo stilizzate, idee convenzionali e sacrificio della componente più riflessiva che invece (vestita da sci-fi “pop”) costituiva un punto di forza della saga. In effetti questa stagione, per la (legittima) volontà di aggiornare il format alle narrazioni totalmente orizzontali della serialità odierna, finisce col sembrare davvero un film di Star Trek da dieci ore. E questo, paradossalmente (per i motivi che si è detto), non è sempre un bene.

Forse funzionerebbero meglio vie intermedie come quella proposta con successo per la galassia di Star Wars dall’ottima The Mandalorian: dove si abbia la possibilità di giocare ed esaurire spunti autoconclusivi (che permettano di mettere in campo una maggiore quantità di idee) mentre ci si prende il giusto tempo per delineare e dipanare trama e personaggi principali. Non a caso, (anche) una serie come Discovery sinora ha funzionato meglio nei singoli episodi (1×06, 2×02) che nel complesso delle trame orizzontali.

Sia come sia, Picard, con tutti i suoi problemi, ha indicato una possibile (altra) direzione in cui muoversi, e che potrà essere raccolta (si spera) da narrazioni ancora più mature, coraggiose e in sintonia col miglior spirito della saga. Le contraddizioni in gran parte restano e le incognite sono ancora tante, ma la (nuova) rotta è stata (almeno parzialmente) tracciata: anche, e soprattutto, per riattivare il potenziale di una (grande) utopia in un mondo (il nostro) che, mai come ora, ne avrebbe bisogno.

Emanuele Bucci

Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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