Monsters and Men: (est)etica di un nuovo (necessario) cinema civile

Monsters and Men: (est)etica di un nuovo (necessario) cinema civile

È stato presentato (da noi) nel 2018 alla tredicesima Festa del Cinema di Roma, Monsters and Men, lungometraggio d’esordio scritto e diretto da Reinaldo Marcus Green. Distribuito qualche mese dopo nelle sale italiane, in sordina, quasi “clandestinamente”: con buona pace del riconoscimento ottenuto al Sundance di quell’anno (Premio Speciale della Giuria) e, soprattutto, del valore di un film che oggi, mentre la questione etnica negli Stati Uniti d’America brucia (letteralmente) nel modo che sappiamo, andrebbe riscoperto, rivisto, ripreso come uno dei possibili esempi per raccontare (al cinema) il presente. Perché traccia(va), con un rigore sempre al di qua (o al di là) degli schematismi, i termini di un conflitto irrisolto che entra ed esce dai confini del linguaggio (cinematografico e non solo) per coinvolgere ogni (imprescindibile) dimensione degli individui e dei gruppi sociali coinvolti (allora come oggi).

Ciò avviene fin dal titolo, che traccia una linea di confine netta, urgente. Una distinzione e contrapposizione che ci esorta subito a schierarci. Perché non è mai stato così facile e scontato come sembra, e non lo è tanto meno ora, trovarsi dal lato degli “uomini”. Perché le piccole e grandi disumanità, le “mostruosità” che si annidano, implodono ed esplodono nel consesso (in)civile, non sono solo gli atti eclatanti di brutalità e sopraffazione delle persone su altre persone. Sotterraneamente, ordinariamente mostruose sono (anche) le piccole omissioni sfumate di grigio e di (auto)giustificazioni, le omertà, i cedimenti, le teste girate dall’altra parte, le scelte e non-scelte viziate da paura, rassegnazione, indifferenza. È (anche) questo il nutrimento potenziale dei soprusi, è (anche) questo il terreno dove si misura il confine tra l’umanità e la sua negazione.

Nel film di Green il confine si incarna nel paesaggio urbano e sociale della Brooklyn contemporanea: metonimia di un’America dove, se sei un giovane nero e giri per strada con uno zainetto, è quasi una legge non scritta che tu venga fermato dai poliziotti di pattuglia e fatto chinare con le mani bene in vista sulla volante per la rituale perquisizione. Dove, se sei nero e il tuo principale crimine è vendere sigarette per la strada, puoi essere circondato da sei agenti armati e assassinato con un colpo di pistola dal più irrequieto di loro. E dove tutto questo, naturalmente, è solo la punta dell’iceberg.

Ecco l’assunto- che pare scritto oggi solo perché ieri (e pure l’altro ieri) il dramma era lo stesso- di Monsters and Men. E da qui l’indipendente Green, già notato e apprezzato per cortometraggi come Stone Cars e Stop (da cui riprende più di uno spunto), mantiene le promesse dei primi lavori, orchestrando una narrazione ampia, complessa e già matura nello sviscerare un tema così delicato senza scorciatoie retoriche o sensazionalistiche. Il punto di forza del film, infatti (a uso e consumo di distinzioni semplicistiche quando non anacronistiche tra forma e contenuto), è che la tensione etica della denuncia alimenta, anziché sopraffare, la ricchezza della costruzione drammatica e formale.

Il fortissimo impeto a prendere posizione contro le ingiustizie che inquinano una società viene infatti calato in un discorso moltiplicante sistematicamente punti di vista, problemi e sfumature, senza per questo arretrare di un passo dalle proprie istanze. Anzitutto, Monsters and Men rinuncia ad avere un singolo protagonista nel quale identificarsi e del cui percorso rendere partecipe fino in fondo il pubblico. Ma non sceglie nemmeno la strada opposta e complementare, quella del racconto a tutti gli effetti corale. Il discorso, piuttosto, elegge di volta in volta un personaggio, concentra l’attenzione su di lui, mettendolo in primissimo piano per un consistente segmento di film, poi lo abbandona e cambia (co-)protagonista, spostando l’attenzione su un diverso lato e tassello della medesima vicenda, del medesimo problema.

Al centro di ogni (parziale) parabola c’è, non casualmente, una scelta-chiave che il personaggio deve compiere, la quale avrà comunque conseguenze, dirette o indirette, sulle storie degli altri segmenti-protagonisti. Così l’economia narrativa del film mette in piena, coerente evidenza non solo la centralità di ogni scelta, ma l’inserimento di questa in una più ampia rete di interconnessioni e ripercussioni: mostrando plasticamente che le azioni del singolo sortiscono conseguenze sulle vite altrui, anche laddove gli uni e l’altro si incrocino solo di sfuggita.

Non solo perciò «siamo sempre liberi di scegliere», come viene ricordato a uno dei tre protagonisti, ma le scelte di ciascuno avranno comunque degli effetti sui percorsi e destini degli altri personaggi, degli altri esseri umani, compresi quelli che non conosciamo e non fanno (apparentemente) parte della nostra vita. Allora, forse, «le città continueranno a bruciare», e non sarà un video di tre minuti pubblicato su internet, la confessione di un poliziotto sugli abusi dei suoi colleghi o la partecipazione di un ragazzo a una manifestazione che rivolteranno il mondo: ma, a seconda della via imboccata da ciascuno a ciascun bivio quotidiano, il mondo circostante andrà più o meno marcatamente in una direzione o nell’altra, le esistenze e le scelte di tutti gli altri sentiranno e subiranno in qualche modo la differenza.

Le scelte, comunque, non sono mai facili, Green mostra di saperlo e non banalizza le questioni neanche una volta: giusta o sbagliata che sia la direzione percorsa dai personaggi principali, ognuno ha il suo carico di dilemmi, sfaccettature e contropartite di cui tener conto. Cionondimeno, il film sceglie da che parte stare, ogni volta, e ogni volta dalla parte di chi rischia la propria sicurezza personale per incidere sui torti di un mondo ostile.

Parallelamente, la tensione etica si traduce senza sbavature in tensione spettacolare, attraverso un uso intelligente del linguaggio cinematografico che restituisce il clima di oppressione e violenza in modo più psicologico che fisico: tenendo efficacemente fuori campo il delitto principale (alluso e potenziato nell’immaginazione attraverso il suono dello sparo e le tanto più indicative reazioni di chi assiste alla scena o guarda il video) e giocando con le attese e le soluzioni audiovisive per creare un senso di costante minaccia. Si pensi all’incipit in macchina, o all’inquadratura ravvicinata su Manny (Anthony Ramos) e la figlia prima dell’arresto, col pericolo in agguato (in contrasto con la tenerezza della scena) già percepibile dall’uso della macchina a mano.

Monsters and Men, allora, è un film che sceglie di esprimere e valorizzare le complessità e le sfaccettature della realtà sociale affrontata: ma, al contempo, esorta, con i mezzi ben calibrati del cinema narrativo, a non assuefarsi, a non arrendersi a questa complessità, a non farne un alibi per tranquillizzare la propria coscienza. E la tesi si conferma nella volontà dell’autore di non chiudere con una svolta risolutiva (tragica o consolatoria che sia) i rispettivi drammi che ha seguito e il dramma complessivo che li unisce. I percorsi dei singoli restano, ma le azioni (od omissioni) compiute sono e saranno gravide di conseguenze (tra quelle che abbiamo visto e quelle che non vedremo) per ognuno. Tutto rimane aperto, come nella realtà in cui il film sfocia senza chiusure e pacificazioni, per porre, con insistenza sanamente urticante, la stessa, decisiva domanda: tu da che parte stai?

Emanuele Bucci

Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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