“Pasolini” (2014) e “La macchinazione” (2016): l’opera, l’intellettuale e le riletture

“Pasolini” (2014) e “La macchinazione” (2016): l’opera, l’intellettuale e le riletture

Sono passati quarantacinque anni da quella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975, quando fu assassinato uno tra i maggiori intellettuali e artisti (nono solo) del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini. Ed è quella notte, non a caso, il centro fatale da cui prendono le mosse tanti racconti e rievocazioni, cinematografici e non solo, del vissuto e dell’opera pasoliniani. Descrivendone e (re)interpretandone il poco prima o il subito dopo, formulando ipotesi su come sia andata e su quali esecutori e (soprattutto) mandanti si celino dietro la prima versione dei fatti, sulla cui assurdità e insostenibilità ha detto già benissimo il film di Marco Tullio Giordana Pasolini, un delitto italiano (1995). Più di recente, altri due titoli molto diversi tra loro hanno offerto la loro lettura del personaggio (e dell’autore): Pasolini (2014) di Abel Ferrara e La macchinazione (2016) di David Grieco. Due film accomunati forse (e non a caso) soltanto dall’avere entrambi come pietra angolare proprio quella fatale notte, e non solo per la tragicità e oscurità del delitto.

La presenza della morte, non solo come punto d’arrivo ineluttabile ma anche e soprattutto come momento in grado di definire a posteriori la vita e le azioni che l’hanno preceduta, è infatti un elemento chiave della poetica e dell’esperienza pasoliniana. La morte, afferma lo stesso Pasolini in Osservazioni sul piano-sequenza del 1967, è per i materiali dell’esistenza l’equivalente del montaggio per i materiali di un film. Essa «compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi […] e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile e certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile. Solo grazie alla morte, la nostra vita serve ad esprimerci». Anche il racconto di quella morte, però, differisce Pasolini a La macchinazione, come (conseguentemente) la ricostruzione dei giorni che l’hanno preceduta.

Una diversità di approccio che, al netto di pregi e difetti propri dell’uno e dell’altro film, riflette un’altra caratteristica del poeta-regista: poiché, probabilmente, nessuna figura, nella cultura italiana del secondo Novecento, è stata più poliedrica e contraddittoria. Per la quantità di discussioni e ambiti della comunicazione che egli ha visitato e in cui si è imposto; per le reazioni opposte che i suoi contributi hanno suscitato e continuano a suscitare; per la propensione a mettersi in discussione e a visitare e violare i limiti rischiosi che hanno definito ogni stazione del suo percorso: i limiti tra le diverse arti e discipline, i limiti tra i generi narrativi, i limiti delle ideologie e della morale, il limite tra la vita e la morte. I due film che approfondiremo, allora, propongono due aspetti (e letture) differenti di Pasolini, che senza escludersi a vicenda (anzi, a ben vedere si completano), rivelano anche (e soprattutto) nelle rispettive insufficienze la complessità (e irriducibilità a letture parziali) del personaggio in questione.

Pasolini (2014), o dell’opera

Presentato a Venezia 71, il biopic scritto e diretto dal regista de Il cattivo tenente ha scandalizzato molti estimatori di Pasolini (quasi) quanto i film di quest’ultimo scandalizzavano molti spettatori alla sua uscita (e anche dopo). Un rifiuto a nostro avviso ingeneroso, perché il film, oltre ad essere uno dei migliori dell’ultimo Ferrara, è anche tra i più interessanti e originali sinora realizzati su Pasolini. Il punto (e parte del problema) è che a Ferrara non sembrano interessare tanto l’intellettuale e la realtà del suo tempo, quanto l’opera, l’inquieto magma espressivo dell’ultimo Pasolini. Distinzioni che possono risultare quanto mai arbitrarie e fallaci, specialmente nel caso di Pasolini. Nondimeno, è questa la cifra della lettura di Ferrara, che sceglie (certo discutibilmente) di mettere in secondo piano tanto la biografia quanto la messa a fuoco precisa del contesto socio-politico, per parlarci prima di tutto di un processo creativo. E, dunque, di un autore  posseduto dalla disperata vitalità della propria opera, consumato da essa non meno che da un mondo esterno sempre più folle e disumano. E l’autore, perciò, si esprime nel film non tanto attraverso le parole (è quasi laconico, fuori dalla sfera pubblica, il Pasolini di Ferrara interpretato da Willem Dafoe), ma attraverso le sue estreme (in tutti i sensi) scritture cinematografiche e narrative.

Il film, non a caso, si apre con una delle sequenze più crude di Salò, cui si sovrappone la voce del protagonista, intervistato proprio sull’allegoria fascio-sadiana. In seguito, malgrado le sequenze dedicate al Pasolini “privato” (con i vari affetti che lo circondano, dalla madre a Ninetto Davoli e Laura Betti), a rubare davvero la scena sono i frammenti dei (frammentati) progetti in lavorazione poco prima dell’assassinio. Ferrara, in particolare, mostra al cinema (per primo) alcuni brani dell’antiromanzo Petrolio e del trattamento per il Porno-Teo-Kolossal, viaggio picaresco del Re Magio Epifanio e del suo servo Nunzio alla volta di una (irraggiungibile) cometa divina. Affidando il ruolo del personaggio più anziano (che nelle intenzioni di Pasolini avrebbe dovuto essere Eduardo De Filippo) a Ninetto Davoli, il quale in origine doveva essere il giovane Nunzio (qui interpretato da Riccardo Scamarcio, ovvero Ninetto nel film di Ferrara). Un gioco di specchi tutt’altro che banale, tra omaggio e constatazione meta-filmica del destino di irrealizzabilità cui la morte improvvisa dell’artista ha condannato quel progetto.

Ma è ancora di più nella scelta operata su Petrolio che si dimostra l’intelligenza dell’approccio personale, rischioso e in parte discutibile, ma non per questo superficiale, di Ferrara a Pasolini: se molti, infatti, si sono limitati a constatare la presenza nel film del famigerato Appunto 55 (o meglio del suo inizio, con la prima fellatio sul Pratone della Casilina), è in realtà nell’Appunto 98 (Storia di un uomo e del suo corpo) che andrebbe rivolta più attenzione. La vicenda enigmatica di Andrea Fago e del suo aereo che precipita è infatti il brano forse più rivelativo del frantumato e interrotto ordito di Petrolio: non già dal punto di vista esplicitamente politico né erotico, ma da quello formale. Tutto Petrolio, infatti, può essere letto (suggerisce l’Appunto 98) come l’allegoria del «rapporto di un autore con la forma che egli crea». Ferrara dimostra così di essere interessato non tanto e solo alla natura scabrosa degli ultimi testi pasoliniani (come lo hanno accusato), ma al rapporto tormentato di Pasolini con il proprio stesso procedimento artistico.

Ferrara (per fortuna) non ha la presunzione di negare il peso della politica nell’esperienza pasoliniana. Tuttavia non è su questo lato che posa la sua lente: pure l’intervista a Furio Colombo, infatti, emerge come  parte di quel magma artistico-espressivo che comprende film e (anomali) romanzi. D’altronde la stessa opera pasoliniana, e massimamente l’ultima fase, rompe gli argini persino tra scrittura (e dichiarazione) giornalistica e creazione narrativa (è proprio il caso di Petrolio). Dove invece si sconta davvero il limite della lettura di Ferrara è nella rappresentazione della morte. Che, dando ormai per acquisita la confutazione della vecchia versione (a uccidere Dafoe-Pasolini sono più persone), rinuncia a sposare apertamente (senza d’altronde escluderla) una lettura “politica” della vicenda. Scelta coerente con l’approccio del regista, ma che brucia inevitabilmente sulla ferita del fatto tragico quanto irrisolto. Un vuoto che interverrà a (tentare di) sanare, due anni dopo, La macchinazione.

La macchinazione (2016), o dell’intellettuale

Il film di Grieco (che non a caso ha rifiutato di collaborare come consulente all’opera di Ferrara) è per molti aspetti un negativo del film di Ferrara, racconta ciò che nell’altro non è presente (e viceversa), o lo racconta in modo totalmente diverso. Lo sguardo di Grieco non entra nelle pieghe dell’opera, e salta con una destabilizzante ellissi gli ultimissimi giorni di vita dello scrittore-regista per giungere direttamente alla notte della morte. Il testo chiave è, ancora una volta, Petrolio, visto però nel suo versante “investigativo”, con le possibili rivelazioni che, una volta compiuto, avrebbe (forse) potuto contenere e divulgare sulla strategia della tensione in Italia e (soprattutto) sul ruolo dell’allora presidente della Montedison Eugenio Cefis.

Un’indagine che attira su Pasolini (qui interpretato da Massimo Ranieri) quella “macchinazione” che porta al suo assassinio, esito di una diabolica trappola che vede coinvolti apparati del potere statale, estremisti di destra e nuova delinquenza della Capitale: ne emergono un’Italia e una Roma nerissime, un contesto soffocante che circonda, permea e alimenta i fatti narrati, tra occulti manovratori, ricchi borghesi clerico-fascisti e giovani di periferia non più innocenti «ragazzi di vita» ma utili pedine del Potere.

È in particolare sui destini di alcuni di loro, prossimi esecutori materiali del delitto, che il film si sofferma a più riprese sottraendo la scena al protagonista: il personaggio di Antonio Pinna (interpretato da Libero De Rienzo), più ancora che il giovanissimo Pino Pelosi, rappresenta la definitiva perdita di innocenza nell’Italia dei consumi, delle stragi e dei complotti; simboli della sua caduta, la cocaina (nuovo status symbol dei sottoproletari per farsi strada fino ai «pariolini»), che egli si rifiuta di provare sino alla notte fatale, e l’automobile: vera arma del delitto, altro emblematico simbolo della nuova Italia dei consumi, nonché ennesima contraddizione del personaggio Pasolini, inquadrato tanto spesso all’interno della sua invidiata vettura borghese, così simile a quella che Antonio guiderà per travolgerlo e ucciderlo.

Ma La macchinazione vuole prima di tutto raccontare il Pasolini “intellettuale”, ovvero il coraggioso indagatore critico della realtà: un uomo fragile negli affetti privati ma determinato fino al martirio nella propria ricerca di verità. Se il limite di Ferrara era dunque quello di subordinare (sin troppo, parlando di Pasolini) la componente politica all’esperienza artistica, Grieco, nel porre meritoriamente l’accento sulla tensione socio-politica, incorre in eccessi mitizzanti e didascalici: si veda il momento in cui il poeta ha un’allucinazione profetica dell’Italia odierna, con folle di persone distratte dai rispettivi cellulari; oppure il grado iperbolico di consapevolezza dello stesso Pasolini rispetto al proprio destino, al punto che egli si reca all’incontro con i suoi esecutori perfettamente ed esplicitamente cosciente di star muovendosi verso la trappola architettata dall’alto.

Un discorso analogo si potrebbe fare per l’interpretazione di Ranieri, una sofferta, misurata e intensa immersione mimetica nel protagonista, che però esce (troppo) fuori dalle righe nelle concessioni a una cadenza napoletana estranea al personaggio. Ogni sbavatura del film, tuttavia, si perdona di fronte all’angosciosa, straziante e meta-cinematografica sequenza dell’omicidio: la “macchinazione” arriva all’apice, alla convergenza dei fili e al compimento come fosse la scena di un atroce film; col più feroce degli esecutori a fare da regista per i movimenti dell’assassino in automobile, la confessione di Pelosi scritta come il gelido monologo di un brutto poliziesco, e persino i baraccati dell’idroscalo di Ostia a fare da pubblico, indotto col terrore a un voyeuristico e complice silenzio.

Due letture diversissime dell’ultimo Pasolini, insomma, ma entrambe interessanti anche nelle loro imperfezioni. Resta ancora da scoprire se mai qualcuno, nel cinema di finzione, riuscirà a interpretare efficacemente non più solo uno dei molteplici aspetti della figura di Pasolini, ma la loro compresenza (a cominciare dal dualismo per antonomasia, quello tra “passione e ideologia”): ovvero, per dirla con Petrolio, quella «intermittenza di coesistenza» che è la contraddizione tra opposti. Se e quando questo accadrà, avremo forse il ritratto più vicino alla complessità di un personaggio unico e, ancora oggi, non del tutto afferrabile.

Emanuele Bucci

Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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