La Tempesta secondo Daniele Salvo, la Tempesta di Shakespeare, la Tempesta che ci ispira

La Tempesta secondo Daniele Salvo, la Tempesta di Shakespeare, la Tempesta che ci ispira

«Forse il vero ducato di Prospero, alla fine, resterà sempre quella povera isola sospesa sul filo dell’orizzonte, luogo più reale del reale, non toccato dalla complessità della vita quotidiana, dall’arroganza della politica, dalla protervia degli intellettuali della corte, dalla compravendita delle cariche pubbliche, governata unicamente dal sogno e dall’illusione, un piccolo teatro in chiusura, sospeso nel nulla, sull’abisso». Questa è l’interpretazione che Daniele Salvo, regista della Tempesta in scena (fino al 7 ottobre) al Silvano Toti Globe Theatre di Roma, fornisce dello straordinario dramma-testamento di William Shakespeare. Un’interpretazione e un allestimento che, oltre a convincere in pieno, ci offrono l’opportunità di riflettere (ancora una volta) su cosa abbia da dirci e ispirarci tuttora quel testo del Bardo, sul perché valga la pena non solo riportarlo sempre e nuovamente in vita ma, ancora di più, tradurne gli spunti e le visioni più pregnanti nel nostro concreto e quotidiano operare artistico.

Perché La Tempesta, come altri capolavori di Shakespeare, ma forse un pochino di più, non è semplicemente un dramma teatrale, è (soprattutto) un dramma sul teatro. Teatro da intendersi non solo come forma espressiva specifica e distinta dalle altre, ma anche come luogo di incontro e collettore di linguaggi artistici diversi, casa dell’arte stessa che si fa corpo e agisce, si esibisce, si espone, si offre: con la generosità di un dono, la crudeltà e insieme la grazia di un sacrificio, la tensione di un’assemblea dove giocando con le finzioni si dicono e mostrano grandi e piccole verità. È un dramma, il dramma (probabilmente l’ultimo interamente scritto da Shakespeare), dove il teatro dell’autore condensa e fa il bilancio dei suoi temi, registri, umori, compresa la propria stessa, ricorrente tensione metadiscorsiva, alla rappresentazione del teatro come vita e della vita come teatro. È una messa a nudo tanto della potenza quanto della fragilità dell’atto artistico, allegorizzato dalla figura di Prospero: duca spodestato e stregone-re della sua grotta-isola, regista-drammaturgo che dall’esilio (quello a cui forse è sempre parzialmente condannato l’artista) frantuma il proprio mondo (politico, personale, culturale), ne rovescia i pezzi e li ricompone all’interno del suo regno-teatro, ultimo grandioso atto di una vita che già si sente visitata dal sonno definitivo, dalla rappresentazione estrema che non avrà termine né applausi.

Tutto, allora, è allegoria nella Tempesta, tutto è materia sognante e sognata che rimanda non solo ad altri sogni, ma al sogno in generale, quello della vita e dell’arte, dei mondi così vivi che l’arte ha il potere di creare. Mondi dove le contraddizioni e i conflitti del reale (o di quel sogno che il reale non sa di essere), della nostra società, della politica, della cultura, dei nostri rancori e amori individuali e collettivi, entrano ma rigorosamente da ospiti, non più da padroni: diventano materiali da spogliare, deformare, modellare, riplasmare all’interno di quello spazio altro che l’arte ha la facoltà di instaurare. Spazio di alterità e dunque di alternativa, dove è finalmente possibile sperimentare ciò che le convenzioni, i dogmi, le logiche di potere del mondo esterno non consentono o nemmeno concepiscono. È questo che fa dell’arte un regno a sé, non estraneo agli altri ma autonomo, capace di esercitare il proprio potere di critica e di apertura (di apertura critica) su ogni campo della vita umana, e però con la fluttuante leggerezza del sogno, dell’illusione, del soffio di vento che tocca e si (dis)perde.

L’allestimento di Daniele Salvo al Globe gioca per l’appunto a sottolineare e valorizzare in scena proprio l’immensa carica allegorica del testo shakespeariano, il suo rimandare costantemente al teatro dell’autore, al teatro in generale, all’arte e alle arti che si riuniscono in teatro. Lo si può vedere sin dall’opzione per una scenografia apparentemente povera da vecchio teatro decaduto, dove campeggia un vasto, coprente, ondoso sipario bianco (tanto da farci pensare a una pietrificazione in atto, a un marmo solenne quanto mortifero) aperto solo quanto basta a consentire l’ingresso delle presenze “magiche”. La scena è «un teatro abbandonato “in disarmo”, un luogo dimenticato da tutti, sepolto nel tempo, ricoperto di polvere, un luogo ormai tristemente “demodé” e senza una funzione sociale precisa», per dirla ancora con le parole del regista. E proprio la perdita del senso originario dopo l’esposizione alle offese del tempo e della Storia, alla caducità dell’esistenza materiale, costituisce, come ci ricorda Walter Benjamin, il presupposto fondamentale perché l’oggetto, spogliato del senso e della funzione di una volta, possa trovarne uno nuovo e diverso in qualità di allegoria, materia per significare “qualcos’altro”.

Ancora più esplicite ci sembrano, in questo senso, alcune soluzioni tese a scomporre la rappresentazione in diversi piani paralleli ma intercomunicanti: come già nella prima scena, divisa emblematicamente su tre livelli. Al centro, la nave colpita dalla tempesta che dà il via e il titolo al dramma, sul proscenio Ariel che dirige la tempesta giocando col modellino della stessa nave, in alto Miranda addormentata e in agitazione nell’incubo della scena sotto di lei. La natura di sogno-spettacolo tanto della tempesta orchestrata da Prospero quanto del dramma stesso e dell’esistenza (con)fusa con il teatro, è già riflessa in questa scomposizione e interazione di piani, che sarà riproposta, variata, più volte: per esempio all’inizio del terzo atto, con i due innamorati Miranda e Ferdinando al centro, Ariel in disparte a manovrarne i corrispondenti burattini, Prospero in alto a vegliare sulla scena che lui stesso ha provveduto a orchestrare, godendo dei sogni-spettacoli altrui, lui che non ormai può più viverne di propri («Io non posso più essere felice come loro, ma nulla può farmi più contento»). Tutto perciò, nel testo e sulla scena, è rappresentazione, tutto si denuncia come rappresentazione e rimanda all’atto stesso del rappresentare: rappresentazione che parla di se stessa, dei propri procedimenti, delle proprie componenti, dei propri ruoli e del proprio ruolo.

Ma, come dicevamo, il teatro nella Tempesta sta per tutte le forme artistiche, che qui si incontrano, interagiscono nella dimensione teatrale come i destini dei personaggi sull’isola di Prospero. Questo adattamento allora centra il bersaglio tanto più nel valorizzare sulla scena le contaminazioni tra diversi linguaggi espressivi: la musica, presenza fondamentale già in un testo, e in un’isola, così pieni «di dolci melodie»; il video, nei momenti in cui sono proiettate sulla scena composizioni di elementi primari messi in campo dal dramma (le stelle, il mare, la pioggia, le fiamme infernali); la pittura, nella scena di Ferdinando che cade sotto il peso del legno ed è soccorso da Miranda, e che si compone di rimandi, tradotti in tableaux vivants, all’iconografia cristologica, dal Calvario alla Pietà; la danza, che ha il suo centro, mobile e plurale, in Ariel e nel coro degli spiriti-venti: i volti occultati, appiattiti, de-umanizzati dalle maschere e i corpi esibiti-eletti a strumento espressivo totale, protagonisti assoluti nella coreografia-incantesimo all’inizio del quarto atto, dove (in una delle più significative licenze dal testo) la parola si fa emblematicamente, a lungo, da parte. Questa Tempesta è insomma una festa (rituale) di linguaggi artistici che si incontrano, urtano e contagiano per rimandare al più vasto oggetto del discorso, l’atto creativo in sé.

Il personaggio di Prospero, con la sua magia, è il significante chiave di questo atto creativo, sospeso nelle sue polivalenti, fertilissime ambiguità: tra la levità di Ariel e il profondo pulsionale di Caliban, tra il sublime e il terreno (ma Shakespeare, nel suo gusto grandiosamente barocco e anticlassico, ci pare sempre preferire il secondo); tra la tensione morale e il fascino inesorabile per il macabro, il mortifero, il demoniaco (in questa esecuzione Caliban esordisce da una botola, piagato e deforme mentre un intreccio di braccia “dannate” lo attira giù); tra solitudine, rivalsa orgogliosa e riconciliazione col (proprio) mondo di farse (ignare di esserlo, come per gli ubriaconi congiurati) e tragedie (ignare di non esserlo davvero, come per Ferdinando e suo padre); tra realtà e illusione, vita e morte, rivincita e resa. Alla fine, ancora una volta, Prospero ci ha mostrato il potere immenso della creatività artistica, la straordinaria forza delle illusioni che essa crea, la capacità di queste ultime di riscrivere i codici e gli equilibri di quell’illusione che è il mondo reale. Ma alla fine, come ogni volta, Prospero si scopre e si mette a nudo senza più sortilegi, nella sua stanchezza, debolezza e vecchiaia di uomo, personaggio, drammaturgo (del drammaturgo Shakespeare a cui rimanda), attore (e Ugo Pagliai è un Prospero che lascia emergere, fin dall’inizio, la propria parte più vulnerabile, l’isolamento della e nella vecchiaia).

Ma questa ammissione di debolezza e caducità conclusiva, sancita dal monologo finale, mentre la scena del vecchio teatro si scopre, le maschere sono abbandonate, la stessa rappresentazione si arrende e si confessa (tanto più) apertamente nella sua natura di precaria finzione su una finzione, non è, ci viene (ancora) da dire, l’ammissione di una sconfitta: semmai, l’offerta ultima, radicale, e quindi l’opportunità, concessa dallo stregone-artista, dal leggendario drammaturgo a cui rimanda, dal teatro e dalla creatività tutta, di farci carico di quel potere a cui Prospero ha rinunciato, di non lasciare che esso si disperda completamente. Perché forse quell’«isola nuda» è davvero l’unico regno che potrà rimanere a Prospero, ma la sua reale liberazione dall’esilio spetta a noi: a un pubblico che può e deve farsi autore, regista, attore, portando quella creatività, quel gusto per la sperimentazione ad ogni livello e registro dell’umano, quella voglia di contaminare, di giocare con il linguaggio e i linguaggi, di trasmettere verità profonde attraverso i sogni e le illusioni, nel mondo (cosiddetto) reale. Fare dell’arte e del suo potere tempesta per aprire nel teatro del mondo spazi di rappresentazioni inaspettate, destinate ad incidere come i sogni più vividi sulle menti dei sognatori. È questa, forse, l’essenza della magia di Prospero e di Shakespeare, l’eredità che, ad ogni lettura del testo, ad ogni sua (buona) rappresentazione, ci viene lasciata da loro in consegna: e a tutti noi spetta, ancora una volta, di liberarla.

Emanuele Bucci

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Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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