The Snyder Dilemma, capitolo I: Watchmen (2009)

The Snyder Dilemma, capitolo I: Watchmen (2009)

Chi ha ucciso l’ex vigilante mascherato noto come “il Comico”? È la domanda da cui prendono le mosse sia il celeberrimo graphic novel Watchmen (1986-87, testi di Alan Moore e disegni di Dave Gibbons) sia l’adattamento cinematografico del 2009 diretto da Zack Snyder. E allo stesso modo si snodano entrambi, mostrandoci un ipotetico 1985 dove un incidente nucleare ha trasformato il fisico americano Jon Osterman nel primo vero superuomo (anzi, semidio) del pianeta: tale da garantire agli Stati Uniti la vittoria in Vietnam ma anche da portare la tensione con l’Unione Sovietica ai massimi storici.

Popolano l’affresco una variegata galassia di vigilanti in costume, ben poco “super” e ancora meno “eroici”: nichilisti sociopatici, sicari governativi e criminali di guerra, oppure donne e uomini fin troppo comuni, soverchiati e paralizzati dai propri disagi affettivi, esistenziali, sessuali. Insomma, i supereroi come probabilmente sarebbero e agirebbero davvero nel nostro mondo, con i suoi parametri assai meno limpidi e ingenui che nei classici albi di carta e inchiostro.

«Dal visionario regista di 300», recitava un pelino troppo enfatico il primo trailer del Watchmen cinematografico.E però effettivamente era nato, a modo suo, un autore con la trasposizione del graphic novel di Frank Miller sulla battaglia delle Termopili. Sin da allora il pubblico e (ancora di più) la critica si erano emblematicamente divisi non solo sui controversi risvolti ideologici dell’opera (attribuibili d’altronde al materiale di partenza prima che al film), ma anche e soprattutto sull’approccio di Snyder alla materia. Tra chi ne aveva attaccato l’uso (o abuso) dei ralenti, gli eccessi visivi e il tono serioso dei passaggi meno probabili, e chi al contrario aveva salutato con piacevole stupore una visione al tempo stesso personale e fedele al testo (di immagini) originale.

Comunque la si vedesse, Snyder era riuscito ad affermarsi, non solo tra i registi hollywoodiani ma in particolare nel territorio ancora quasi tutto da esplorare dei cinecomics moderni (il Marvel Cinematic Universe era al primo atto con l’Iron Man del 2008). Con Watchmen però la scommessa è più ambiziosa: per il peso dell’opera da cui si parte e perché ora il regista ha la possibilità (ed evidentemente l’intenzione) di tradurlo nei termini di quella che a tutti gli effetti può essere definita la sua impronta stilistica. È insomma l’atto di nascita del supereroe secondo Zack Snyder, ma iniziare con Watchmen è un po’ come iniziare il percorso scolastico dal dottorato.

E il film, infatti, non mise e non mette tuttora d’accordo né i fan del fumetto né i profani, forse inevitabilmente. Non tanto e non solo per i contenuti, quanto per l’oggettiva difficoltà di tradurre nel format cinematografico un romanzo a fumetti di centinaia di tavole divise in dodici capitoli: dove il fascino e la forza del racconto risiedono essenzialmente nella capacità di costruire un mondo verosimile e minuziosamente articolato in cui immergersi progressivamente, vignetta dopo vignetta. Più ancora della decostruzione del supereroe e dell’intreccio tra noir e apologo fantapolitico, la grandezza del graphic novel sta proprio nella narrazione ampia e dilatata fatta di simmetrie e particolari, dove tutto, e soprattutto i dettagli apparentemente di secondo piano, contribuisce a restituire l’effetto di realtà e la pluralità di chiavi di lettura dell’ucronia rappresentata.

Probabilmente una sfida del genere poteva essere vinta in pieno solo da una miniserie tv (e in parte ce lo ha dimostrato il brillante sequel di dieci anni dopo ideato da Damon Lindelof per HBO) o da quel film di otto ore che ipotizzava Terry Gilliam. Snyder invece, nel raccogliere la scommessa, opta (come aveva fatto in 300)per far incontrare le esigenze del blockbuster con una sostanziale, legittima fedeltà al materiale di partenza, che va ben oltre il rispetto della sostanza ma si spinge alla riproduzione, a tratti persino filologica, della forma: con intere sequenze e numerose inquadrature che ripropongono in modo quasi speculare il corrispettivo cartaceo.

Ma il risultato d’insieme non può che tradire i limiti intrinseci dell’operazione: le digressioni tra passato e presente, sottratte al respiro della narrazione per capitoli e compresse in un montaggio di due ore e quaranta, a tratti appesantiscono il film anziché potenziarne l’impatto. Allo stesso modo la densità tematica del fumetto (che spazia dalla percezione del tempo al confine tra bene e male alla satira della società statunitense) rinchiusa nei tempi ristretti del film, ha trasmesso fatalmente a molti un’impressione di sovrabbondanza e cerebralità esagerata, piuttosto che di ricchezza e profondità.

Snyder, tra l’altro, aggiunge del suo nei luoghi e nel modo che sarebbero meno indicabili: traslando da 300  l’uso insistito e ormai quasi manieristico dei ralenti e caricando fin troppo i momenti splatter e quelli erotici, laddove i fumettisti sapevano provocare tanto più efficacemente giocando sull’equilibrio tra mostrato e celato nei passaggi più espliciti del racconto.

Un esperimento fallito e da buttare via, dunque, questo Watchmen del 2009? Niente affatto, perché, al netto delle sue imperfezioni, resta un tentativo coraggioso di trasporre su un mezzo diverso (molto più di quanto spesso si pensi) una delle opere letterarie più complesse e importanti dell’ultimo scorcio del Novecento. Un tentativo che resta a tutt’oggi, comunque la si veda, una delle rappresentazioni più audaci mai proposte del supereroe al cinema.

Snyder in Watchmen sbaglia (quasi) sempre per troppo amore nei confronti del materiale che maneggia. Ma è lo stesso amore, e la stessa fiducia nella storia e nei personaggi, che nei momenti più felici porta a realizzare sequenze memorabili, dove l’incontro tra i linguaggi funziona al massimo grado. Su tutte, il potentissimo incipit, dalla prima inquadratura ai titoli di testa sulle note di The Times They are a-Changin’ di Bob Dylan: la riscrittura corrosiva della storia e della cultura pop recente, il ribaltamento del mito supereroistico, la costruzione nei minimi dettagli di un universo alternativo, da fumetto in movimento reso brutto sporco e cattivo come la realtà, sono già perfettamente sintetizzati in quei primi dieci minuti.

E, se non tutti i protagonisti in carne e ossa reggono il confronto con le controparti disegnate, la performance di Jackie Earle Haley nella parte e nella maschera di Rorschach vince sulle semplificazioni imposte dallo script alla caratterizzazione del personaggio, regalandoci uno dei più riusciti antieroi dei cinecomics. Una dimostrazione già molto significativa dei rischi, ma anche dei pregi, del supereroe secondo Snyder, insomma. Un film che merita comunque di essere visto, e una delle più radicali alternative al supereroe “per famiglie” di prodotti odierni che rassicurano di più e rischiano (molto) meno.

Emanuele Bucci

È nato e vive a Roma. La sua profonda quanto autolesionistica passione per le discipline umanistiche lo ha portato a laurearsi in Letteratura Musica e Spettacolo nel 2014 e in Editoria e Scrittura nel 2018 (con una tesi su "Petrolio" che ha suggellato la sua dipendenza dall'opera di Pasolini). Tra gli effetti collaterali della sua importuna attività di scribacchino ci sono la pubblicazione del romanzo giallo “I Peccatori” (Eclissi, 2015) e di vari racconti. Migrante irregolare nella galassia del libero approfondimento culturale, scrive attualmente per il quotidiano online "Bookciak Magazine" e per il periodico “Fermenti”. Poche cose lo entusiasmano come la partecipazione al progetto di “Liberando Prospero”, che dalla fine del 2015 gli ha donato un collettivo artistico in cui credere, un sito per cui scrivere e degli innovativi spettacoli da pianificare.

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