Justice League (2017) – storie di guerre civili creative

Justice League (2017) – storie di guerre civili creative

Se cercate evidenti segni della presenza di Joss Whedon all’interno di Justice League non li troverete. Se siete tra quelli che speravano che l’ingresso fortuito di Whedon all’interno del sistema creativo che regge il DCEU stesse ad indicare una lenta ma costante azione di subentro dell’autore di Buffy su Zack Snyder, con il regista/sceneggiatore newyorchese pronto a prendersi carico della gestione totale dell’universo condiviso DC ho una pessima notizia per voi: Justice League continua ad essere un film che porta profondamente insita in sé la firma di Snyder ma se si sa dove guardare la presenza/assenza di Whedon la si percepisce senza problemi e, anzi, si riesce anche a capire quale sia stato il suo ruolo, le sue responsabilità e gli obiettivi che lo hanno guidato in fase creativa in rapporto al lavoro svolto da Snyder e dal suo team.

Il centro di tutto, la natura di Justice League,è tutta qui.

Affrontiamo la questione facendo pochi passi indietro.

Un po’ come Suicide Squad, Justice League è uno dei progetti più disomogenei della Dc.

Ogni film nasce all’esatto punto d’incontro tra linee tensive differenti (quelle legate allo script, quelle relative alla regia, quella, dai tratti imponderabili, legata alla produzione, agli imprevisti che avvengono durante la lavorazione e alle conseguenze che questi avvenimenti hanno sul prodotto finale e una serie di innumerevoli altre).

Nella maggior parte dei casi, i confini di queste linee difficilmente si riescono a percepire, proprio perché ben amalgamate nel tessuto del prodotto, in altri, invece, tutto rimane ben marcato e separato, dandoci la possibilità quasi di vedere a occhio nudo i meccanismi che regolano il film muoversi davanti a noi. Justice League appartiene a questa seconda categoria, ma non è detto che tutto ciò sia un male. Anzi, grazie a questa circostanza, è molto più facile, per noi, che il film lo commentiamo, analizziamo, capire chiaramente cosa funziona in Justice League, cosa no e soprattutto come è più giusto suddividere le responsabilità quando si parla dei difetti del film.

Senza mezzi termini Justice League è il punto di contatto di due film diversi che scorrono in parallelo su due livelli contrapposti. L’impalcatura nasconde comunica evidentemente le ambizioni massimaliste dello storytelling Snyderiano ma è ovvio che l’intreccio è  zoppo, probabilmente frutto del lavoro di semplificazione operato sullo script da Whedon e dagli executive della Warner, che hanno ridotto un racconto stratificato, che avrebbe dovuto essere per certi versi la pietra di volta del DCEU e avrebbe dovuto servire da introduzione e backstory per personaggi come Aquaman, Flash o Cyborg, che lo spettatore ha modo di osservare qui per la prima volta ad un’insieme abbozzato di quadri. Non c’è profondità nello storytelling, non c’è desiderio di costruire un mondo narrativo complesso e sussistente, c’è, piuttosto, la voglia di dare frettolosamente al pubblico le coordinate minime per orientarsi nel racconto, che si palesa di fronte ai suoi occhi più per induzione passiva che per altro.

Pensiamo poi al “party” dei personaggi. La squadra di eroi, una volta riunita, funziona, è vero, ma nulla riesce a fugare il sospetto che il sistema continui a girare con il freno a mano tirato che rappresenti, dopo le semplificazioni e i tagli, un pallido fantasma di ciò che sarebbe potuto essere. Flash, Aquaman, Cyborg (sempre loro, irrimediabilmente loro), non possono in effetti fare a meno di apparire bidimensionali, meri personaggi funzione capaci tutti battutine e frasi iconiche utili a fare da sparring partner comunicativo per Batman e Wonder Woman, che questa diegesi di risulta elegge inopinatamente a protagonisti senza comprendere quanto il senso del film sia nella squadra, più che nel singolo. A sopravvivere, eco della scrittura Snyderiana, è certamente la volontà di operare all’interno di tutte quelle zone grigie che un franchise completamente gestito da una major come la Disney non svilupperebbe mai. In scena vediamo infatti degli outsiders, dei freaks, degli individui isolati e incapaci di trovare il loro posto nella società, dei personaggi restii a prendere su di loro il peso del loro compito. Non sappiamo, ad oggi, quanto di questa caratterizzazione dei personaggi sia mutuato da Whedon e quanto si possa trovare nel primo montaggio di Snyder ma di certo, tuttavia, c’è che è di Whedon ha scritto quella che forse è la sequenza più interessante del film in questo senso, che si incarica di tematizzare l’elemento del “fuori tempo massimo” attorno a cui gira la squadra di eroi, tutto giocato su un colloquio  minimalista tra Batman e Wonder Woman.

Si notano, insomma, nelle fondamenta del film, degli sprazzi di consapevolezza. Qualcuno ha capito l’importanza di ciò che c’è in gioco e finalmente (pensiamo alla seconda scena dopo i titoli di coda), si nota in rapporto a tutto ciò una certa volontà di costruire uno storytelling di più ampio respiro, volontà che finora sembrava latitare in casa Dc.

Al di sopra del primo film, del film di Whedon, dell’impalcatura, scorre poi il secondo “film”, quello di Snyder, quello giocato tutto sul visivo, sulla pura regia, ferito, forse, ma capace comunque di muoversi con intelligenza e di far sentire la propria presenza. Snyder c’è, respira, si percepisce sottotraccia, ma la sua personale lettura del supereroe plasmato dalla macchina del cinema, dalla sua regia, dal digitale che definisce lo spazio, volutamente diverso dalla realtà, in cui si muovono i protagonisti, entità esse stesse (sovra)umane, vicine ad uno status divino più che umano, è irrimediabilmente depotenziata, caotica, priva di una linea definita, di una guida su cui muoversi. La sensazione è che, in sostanza, la diegesi insegua lo stile di Snyder attraverso un costante rimontaggio del suo primo cut ma il Ghost In The Machine, lui, il suo vero sguardo, per quanto il filigrana, non sarà mai una presenza autentica capace di costruire davvero il film in maniera evidente nella dimensione formale.

Lo abbiamo detto, Justice League è due film assieme, in costante lotta tra loro. Da un lato c’è Joss Whedon, l’uomo della Compagnia chiamato a chiudere un progetto esorbitante generato dalla mente di un regista che per la Warner è chiaramente una mina vagante, dall’altro c’è Snyder, che si agita nel filmico, che vorrebbe ribellarsi alle imposizioni, ma che non può far altro che vedere la sua creatura morire.

In aggiunta a questo panorama così disastrato, tra l’altro, non bisogna sottovalutare quanto il film sia stato danneggiato da elementi avulsi dal controllo di Snyder e Whedon. Justice League è infatti un progetto ancora profondamente ancorato alla strategia creativa/produttiva Warner, che per distaccarsi da ciò che è stato precedentemente fatto dalla Marvel ha fatto uscire il suo film team-up prima della maggior parte dei film stand-alone dedicati ai singoli eroi in gioco. Questa scelta ha come conseguenza la tendenza a non avere empatia nei confronti delle parti in gioco.

In sostanza, i personaggi possono anche funzionare tra loro, ma spesso lo spettatore non è interessato ai loro destini. Al contempo, nessuno pare si sia preso la briga di amalgamare i reshoot di Whedon con il montaggio di Snyder risultando in momenti a tratti rabecciati, (pensiamo all’insensato prologo con il Superman di Cavill a cui sono stati rimossi i baffi in digitale) e finiscono per aumentare un tratto “posticcio”, “giocattoloso” che non giova al film.

Justice League è un prodotto che dà speranza. C’è qualcosa, all’interno della Dc che sembra muoversi per dare all’universo narrativo quella coerenza, quella completezza e quella profondità che senz’altro merita e a cui da anni aspira. Tuttavia non si può sottovalutare quanto il film sia ancora zavorrato nei suoi intenti da un’incomunicabilità di fondo tra creativi, da disorganizzazione e da uno stile visivo non all’altezza. Per il futuro, forse, la soluzione potrebbe consistere nel ridimensionare l’importanza di Snyder all’interno del franchise e di dare la vera e propria gestione creativa ad una personalità forte e pratica della gestione di universi narrativi.

Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *