Evil Genius – alle radici di certo storytelling americano

Evil Genius – alle radici di certo storytelling americano

Il 28 Agosto 2003 Brian Wells entra nella filiale della Pennsylvania National Bank di Eerie con un collare esplosivo attorno al collo. Con sé ha una serie di istruzioni da seguire, di compiti da svolgere per potersi liberare del collare e un altro gruppo di fogli da dare alla cassiera per farsi consegnare il denaro. La rapina riesce ma nel momento in cui Wells inizia la sua fuga in strada, viene raggiunto dalla polizia. L’uomo, sottotiro, spiega il ricatto a cui è stato sottoposto e prega gli artificieri di sbrigarsi a disinnescare la bomba che ha al collo. Nessuno farà in tempo ad aiutarlo. L’ordigno scoppia e Brian Wells muore in quel giorno di fine estate. Le indagini forensi svelano però una realtà più complessa di quanto si voglia credere, fatta di disagio, povertà, problemi mentali e manipolazione. Wells potrebbe essere infatti solo un ingranaggio di un meccanismo più complesso, una pedina che fa capo all’ambigua Marjorie Diehl Armostrong, al suo ex amante Bill Rothstein e al loro complice Ken Barnes, tutti e tre interessati a mettere le mani su una grande somma di denaro nel minor tempo possibile.

Evil Genius, il doc Netflix di Troy Berzillieri e Barbara Schroeder che in quattro parti studia quella che salì agli onori delle cronache come “la rapina più crudele e folle d’America”, si comporta in maniera curiosa nei confronti dell’Evento che intende ricostruire.

Più attento a restituire una fotografia di una vera e propria zona d’ombra americana che a trovare il vero colpevole della rapina, viene da chiedersi come mai, narrativamente, Evil Genius, si sia rivelato un successo di pubblico malgrado non dia mai allo spettatore ciò che vuole vedere: un’ammissione di colpevolezza, un bersaglio certo su cui sfogarsi, la certezza di una pena.

Lungi dall’essere un’affascinante antieroina, Marjorie Diehl Armstrong pare infatti far parte di una categoria recente di personaggi tra fiction e non fiction che Claire McNear su Ringer ha chiamato Anti-Anti Hero, entità respingenti per lo spettatore, ben piantate in un humus socioculturale ambiguo e a tratti minaccioso, forse troppo simile a quello in cui chi guarda si sveglia ogni mattina.

Allo stesso modo la meccanica alla base del crimine è così complessa, contorta, fuori di senso, che lo spettatore, dapprima affascinato, successivamente verrà colto da uno strano senso di disagio derivato dall’impossibilità di definire i confini razionali all’interno dei quali si è svolta l’azione o più probabilmente annichilito dal mood senza speranza che permea la narrazione della serie.

Forse un primo avvicinamento al mistero nel mistero insito in Evil Genius ce lo può offrire la presenza dei fratelli Duplass, qui produttori esecutivi e dietro le quinte di quel Wild Wild County che aveva già  provato a raccontare un altro lato oscuro dell’America.

Si parte da loro dunque, dal focus sull’intimità delle parti in gioco, dall’interesse per l’approccio minimalista alla sfera creativa, dal generalizzato gusto per la bassa fedeltà che sono i capisaldi dell’estetica mumblecore di cui i Duplass sono i rappresentanti maggiori e si arriva all’elemento comune che si ritrova tanto nel loro cinema che in Evil Genius: la fascinazione per l’umanità ai margini che è al centro della narrazione.

Da questo punto di vista, il vero punto di forza di Evil Genius risiede nel suo essere quasi un precursore di un approccio liquido al documentario, un passo anticipato proprio da Wild Wild County, rilanciato dal recentissimo SanPa e in cui centrale è il ruolo della diegesi come entità viva che manipola l’immaginario su cui poggia il progetto per sviluppare una tesi che si muove sottotraccia ma che costituisce il nucleo argomentativo degli autori nei confronti dei fatti narrati.

Colpisce, in Evil Genius, proprio la volontà di utilizzare la storia del Pizza Bomber per scavare nel tessuto molle di un’America che è figura di sfondo rispetto all’immaginario di massa ma che, a ben guardare, nasconde in piena vista i prodromi delle derive ideologiche più distorte dell’ideologia americana contemporanea, tra estremismi, approcci ambigui nei confronti della verità e auto-narrazione di sé.

Al centro dell’omicidio Wells ci sono drogati, prostitute, accumulatrici seriali, disoccupati, personaggi borderline. Non si tratta, sia chiaro, degli outsider amati da certo cinema mumblecore ma di entità, di individui, al di fuori del senso comune, di personaggi scomodi e per questo isolati. Non stupisce, in fondo, che l’ambizione che violentemente si muove nella psiche di Marjorie Diehl e dei suoi complici sia legata ad un certo egocentrismo: vogliono farsi vedere, vogliono far sentire la loro voce, vogliono essere protagonisti di qualcosa di grosso. Non è casuale che, più volte, interrogata, la donna si faccia sfuggire più volte che sebbene tutto il colpo nascesse da necessità economiche, in realtà decise dopo poco, insieme a Rothstein, di considerare la rapina come climax di un’elaborata strategia per sfidare la polizia e dimostrare che erano in grado di batterli sul loro terreno.

Da questa prospettiva forse ancora più interessante è osservare il modo in cui il film sceglie di dialogare con certa ideologia americana. Il piano della Armstrong e dei suoi complici si nutre di quello che potremmo definire come “rimosso americano”, di tutto ciò che l’America sceglie di non vedere, di quella “polvere sociale” che si ostina a nascondere sotto al tappeto senza rendersi conto che a smuovere quella stessa polvere sono individui ai margini della società, persone vere che continuano ad esistere malgrado si scelga di guardare dall’altra parte. E così si torna al piano criminale che riecheggia un’idea deviata di competizione tutta americana, nasce da una caccia al tesoro e si nutre di quel desiderio di rivalsa, di esposizione, a cui prima si accennava e che riletto da questa prospettiva assume un senso ancora più inquietante.

A partire da questa consapevolezza, colpisce quanto Evil Genius sia soprattutto uno studio sui rapporti tra ideologia, immaginario e sulle modalità in cui lo stesso immaginario media la realtà.

Quasi a voler organizzare un percorso di progressiva crescita e maturazione delle parti in gioco, non è casuale che, nelle sue sequenze iniziali, Evil Genius mostri le modalità attraverso cui l’immaginario disinnesca e contiene il dramma di Brian Wells. Le immagini della lunga agonia del rapinatore improvvisato sembrano in effetti muoversi nel solco della paranoia americana legata all’11 Settembre (a quei tempi appena emersa, siamo nel 2003): c’è una squadra di artificieri in tenuta da guerra, c’è dell’esplosivo, c’è addirittura una decapitazione in diretta, il tutto mentre, sottotraccia, scorrono evidentemente le riflessioni su 11 Settembre e cinema catastrofico di Slavoj Zizek, su un’umanità accolta nel deserto reale e in cui lo squarcio sul dramma del terrorismo elimina le differenze tra ciò che è vero, ciò che esiste e la sua cinematografizzazione.

Poi però, qualcosa, nel lungo racconto di Marjerie Diehl e dei suoi soci si spezza e l’immaginario non è più qualcosa di esterno a loro ma diventa elemento centrale della loro interiorità, utile alla definizione di una propria identità. Sulla lunga distanza il mondo raccontato, testimoniato da Marjorie è dunque finzionale, costruito da una bugiarda manipolatrice che ha continuamente bisogno di una narrazione ai limiti dell’autoinganno per proteggersi.

In questo senso il gioco orchestrato dalla donna, la caccia al tesoro in cui coinvolge Brian Wells pare una perfetta esemplificazione del suo atteggiamento nei confronti del reale: il gioco attira l’attenzione ed il coinvolgimento di coloro con cui entra in contatto ma è irrimediabilmente falso, non porta da nessuna parte e costituisce un’inquietante scheggia di non senso che impatta sulla realtà e che probabilmente non nasconde in nessun modo il suo debito con un’altra scheggia di immaginario (in particolare con il modus operandi del killer seriale Zodiac).

Marjorie arriverà poi, a detta dei testimoni, ad assumere in carcere, più o meno coscientemente, atteggiamenti identici a quelli di Hannibal Lecter. È un atteggiamento più complesso della ricerca di un alibi o della recita di una parte per fingere l’infermità mentale, è un vero e proprio autoinganno, è dimostrarsi differente da ciò che si è ma soprattutto tentare di coinvolgere in questa vetrinizzazione di sé anche coloro con cui si entra in contatto.

Pensiamo, al di là di Marjorie, all’atteggiamento di Bill Rothstein, che prima di venire identificato come complice della donna interpreta il ruolo di vicino preoccupato dalle derive della follia di Marjorie, arrivando ad autoaccusarsi di complicità in occultamento di cadavere e accompagnando cordialmente gli inquirenti nei luoghi del delitto  preoccupandosi tuttavia di specificare (forse mentendo) che lui ha solo aiutato Marjorie ma non ha mai ucciso nessuno.

Di questo passo alla diegesi non rimane dunque che assecondare questa grana artefatta con cui il gruppo di assassini ha ammantato le proprie storie facendola esplodere ed esplorando, amplificando, la sempre più pervasiva grana cinematica che caratterizza il racconto.

È così che l’inquietante sottoscala di Bill Rothstein rimanda alle stesse, oscure vibrazioni, del rifugio di Buffalo Bill nel Silenzio Degli Innocenti, ecco che la bassa fedeltà delle riprese digitali tutte a camera a mano che costituiscono la gran parte del materiale d’inchiesta ricordano evidentemente tanto degli home movies deviati quanto progetti tra l’amatoriale ed il morboso come gli snuff movies o altri prodotti hardcore e non è casuale, forse, che uno degli inquirenti si lasci sfuggire un riferimento alla serie CSI nel raccontare una parte del processo, come a rimarcare quell’ormai inscindibile rapporto tra finzione e realtà su cui lavora il documentario.

Sulla stessa linea, non è un caso che un momento centrale di Evil Genius, la ricostruzione del piano criminale di Marjorie e dei suoi complici, avvenga con una modalità a metà tra il teatro di ombre e l’animazione a passo uno, sorta di epilogo (e ritorno ad un elementare punto di partenza), della cinematografizzazione a cui ci si è riferiti in precedenza.

Arrivati a fine corsa il senso profondo del discorso antropologico di Berzillieri e Schroeder, dello studio che dal particolare li ha condotti ad un’osservazione profonda di quella che diventerà l’anima nera dell’America contemporanea appare in tutta la sua evidenza.

In Marjorie c’è lo stesso desiderio di auto-inganno dei militanti estremisti che fino a qualche mese fa si ritrovavano su oscure message board per discutere della rivoluzione salvifica di Trump, la stessa spinta ad emergere dalla massa o dall’apatia da cui provengono per sentirsi eroi o degni di una rivelazione per un giorno, la stessa, indiretta, conseguente, cinematografizzazione della realtà, che quasi esorbita a contatto con il non senso delle azioni di tali personaggi e sintetizza quei momenti, come l’assalto a Capitol Hill del 6 Gennaio o i conseguenti arresti ad opera dei federali, che davvero sembrano usciti da un film di fantapolitica (anche letteralmente).

A margine, forse non stupisce quanto il gioco, la caccia ideata da Marjorie, sulla lunga distanza, forse, abbia sfruttato non solo la competitività degli americani ma anche l’atavico desiderio umano di svelare misteri che si è ritrovato, certamente alla lontana e oviamente cambiato di segno, nelle Q drops, le cellule variamente studiate e analizzate dai militanti di Qanon alla ricerca della verità sull’ennesima cospirazione governativa.

Al termine del suo percorso Evil Genius è in sostanza uno studio su persone e personaggi ma soprattutto un viaggio alla ricerca di certo storytelling americano. Il punto, forse, è che come accade con il documentario, il nucleo del ragionamento, quella stilla oscura da cui origina quello storytelling viene avvicinata ma non risolta né introiettata, un po’ come accade con la verità sul caso Pizza Bomber.

Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *