1917 – Il Tempo, Il Simbolo, Gli Academy

1917 – Il Tempo, Il Simbolo, Gli Academy

Nel bene e nel male ci troviamo di fronte ad un approccio al mezzo straripante. Straripante per ambizioni, ovviamente per mezzi produttivi, per il modo in cui sceglie di approcciarsi ai due linguaggi principali che lo animano, quello della storia e quello del cinema, ma, anche e soprattutto, straripante per l’entropia, il caos, il disordine che genera nel momento in cui il tessuto ideologico che regge il film va ad impattare con la concretezza del mercato, delle audiences, oltreché con il fatto, incontrovertibile, che il progetto con cui ci stiamo confrontando non fa nulla (ma per certi versi non potrebbe) per nascondere la sua natura di pellicola “d’occasione”, nata evidentemente per essere anche la testa di ponte che porterà l’Oscar in Inghilterra.

E allora ecco che capire davvero 1917 significa non soltanto capire le strutture, i testi, i sottotesti che reggono il e dipartono dall’ultimo film di Sam Mendes ma anche comprendere il modo e i modi in cui l’arte, anche nella sua forma o nei suoi intenti più elevati finisce per dialogare con il contesto di ricezione che l’accoglierà, arrivando fino a leggere nel giusto modo quelle occasioni più ambigue in cui un progetto artistico sembri intraprendere strade apparentemente incomprensibili.

Che cos’è, dunque, 1917? È un rischio, ed è anche un rischio bello grosso, soprattutto per la sua natura profonda di prodotto che vorrebbe ragionare in maniera alta sul mezzo cinema e al contempo rivolgersi non solo agli Academy ma anche alla pancia di un certo tipo di pubblico.

L’approccio operativo organizzato da Mendes per confrontarsi con il corpus storico della Prima Guerra Mondiale sembra essere non solo duale ma più specificatamente schizofrenico, come si vedrà tra poco.

Si parte, in sostanza, dal puro pragmatismo, dal “cosa” e dal “come”. “Cosa manca al racconto della Prima Guerra Mondiale Al Cinema?” manca, in buona sostanza, l’interferenza tra l’epica hollywoodiana postclassica e il racconto di guerra, manca, alla Prima Guerra Mondiale un’escrescenza che sia ciò che Salvate Il Soldato Ryan è stato per il Secondo Conflitto Mondiale, sebbene, sia chiaro, alcuni timidi tentativi siano stati fatti in questo senso (a memoria mi viene in mente proprio il War Horse di Spielberg). “Come Raggiungo Un Obiettivo Narrativo E Tematico Del Genere?”, cercando, in sostanza di organizzare, come nel capo d’opera Spielberghiano, un costante dialogo tra la tradizione e le potenzialità del mezzo cinematografico in rapporto al contemporaneo.

E allora ecco che il film di Mendes è un film di guerra profondamente umanista, intimo, dal passo contemplativo in più punti, più concentrato a catturare le “piccole cose di pessimo gusto” (per dirla con Gozzano) del campo di battaglia, nato dalle memorie belliche quotidiane del nonno del regista e per questo avvicinabile, almeno nell’approccio alla scrittura, a Dunkirk, a Orizzonti Di Gloria, al dittico Eastwoodiano sul teatro del pacifico.

Su questa struttura, a suo modo umile, controllata, va a innestarsi la complessa riflessione sul medium organizzata da Mendes a partire dal Piano Sequenza. In un discorso che sembra voler partire dalle conclusioni raggiunte da Nolan con Dunkirk ma che in realtà approccia la materia in modo ancora più diretto e ambizioso, Mendes sfrutta il teatro di guerra di 1917 come laboratorio in cui studiare le specifiche qualità scopiche del piano sequenza.

Si parte, anche in questo caso, come in Dunkirk dalla fisica applicata al tempo e se nel film di Nolan si studiava la simultaneità dello scorrere del tempo qui la materia viene ammantata da un fascino Cosmische. Un po’ come se lo spettatore si trovasse per un’ora e mezza con l’occhio in un telescopio astronomico che si sposta fluidamente sulla scena e attraverso cui segue la storia dei due soldati, il piano sequenza di 1917 finisce per catturare non soltanto lo scorrere del tempo e la sua variazione, rendendo evidente quella “morte al lavoro” a cui da sempre si assimila il cinema (tra l’altro sfruttando una splendida sequenza in cui osserviamo letteralmente il respiro vitale abbandonare gradualmente uno dei due protagonisti) ma anche la variazione propriamente temporale dello spazio attorno a noi.

In buona sostanza ciò che man mano si palesa di fronte al nostro sguardo non è uno spazio reale, concreto, tangibile, soprattutto legato alla sfera del tempo presente (sebbene esso sia un presente “narrativo”), quanto uno spazio simbolico, corrotto dall’entropia, dal caos della guerra, dall’incomprensibilità di quanto si sta vivendo, uno spazio ferale, selvaggio, che diventa sempre più aggressivo e intelligibile allo spettatore man mano che il racconto si approfondisce e i due soldati (e noi con loro, attraverso il filtro scopico della macchina da presa) ci addentriamo nel profondo del teatro di guerra. Ci si sposta attraverso il tempo dunque, ma anche attraverso lo spazio, confrontandosi con un ambiente mai così vicino ad una dimensione limite, rischiosa, imprevista, danneggiata oltre ogni limite, una regione che è essa stessa, per questo, oltre il tempo e oltre la storia (o addirittura precedente a entrambe queste dimensioni).

Preso coscienza di questo, il film subisce un prevedibile switch di significati, a partire proprio dallo scontro tra il pragmatismo del reale e l’impalpabilità della dimensione simbolica.

1917 assume in effetti tutta la sua pregnanza nel momento in cui lo si legge come un racconto puramente simbolico, un progetto che si muove con il passo flemmatico ed evocativo della favola, della fiaba (di cui conserva anche alcune entità che ricordano gli archetipi di Propp, l’oggetto del potere) e che non nasconde in alcun modo la carica immaginifica che impregna gran parte di ciò che lo spettatore vede, sempre più facilmente assimilabile ad un prelievo da un universo altro, lontano, ostile.

C’è la vasta desolazione della Terra Di Nessuno che pare evocata dalla Wasteland di T.S. Eliot, ci sono i colori del romanticismo tedesco (penso all’Isola Dei Morti di Bocklin), c’è la mancanza di senso e la difficoltà d’interpretazione del reale tipica della metafisica.

In 1917 c’è il caos al lavoro (in fondo un’evoluzione, un alter ego della morte al lavoro a cui precedentemente si accennava), che infetta come un cancro la campagna francese in cui si muovono i due soldati, che ne cambia i tratti essenziali ma che finisce (complice anche la ricercata impalpabilità della struttura del racconto) per sporcare d’assurdo anche l’organizzazione dello storytelling.

Più volte la narrazione si squarcia, si apre al non senso, si lascia conquistare dall’entropia, dal disordine. L’aereo che cade fortunosamente sfiorando i due protagonisti in campo aperto, la precipitosa fuga del giovane soldato e il conseguente volo nel fiume da cui egli esce praticamente illeso, l’evocativa e quasi inquietante sequenza in cui il nostro uomo ritrova la compagnia suo obiettivo seguendo un suono modulato sulle prime incomprensibile, il fortuito incontro con una civile e con un’orfana di guerra nell’ultimo posto in cui la logica vorrebbe si trovasse un civile, arrivando poi alla straordinaria corsa tra le bombe in caduta che precede l’assalto finale degli inglesi.

Si tratta di momenti in cui il racconto cinematografico mostra in tutta la sua forza il carattere di narrazione simbolica, di racconto oltre il tempo, oltre la storia che ne impregna il tessuto profondo.

Capire il senso di questo simbolismo significa comprendere il senso profondo di un film e di un’operazione come quella alle spalle di 1917.

Perché è chiaro che il simbolismo che intesse l’ultimo film di Mendes struttura un racconto che è molto più politico e soprattutto molto più contemporaneo di quanto si creda. Il caos della guerra è equiparato al caos sociopolitico di un’Europa in crisi e preda di estremismi, ed è altrettanto chiaro che il dualismo tra giovani idealisti, intelligenti e pronti a prendersi le loro responsabilità e vecchi dispotici, passatisti ma soprattutto incapaci di guidare e ciechi di fronte ai pericoli che governa gli equilibri di potere della Prima Guerra Mondiale è lo stesso che governa l’Inghilterra d’oggi.

Ecco, dunque, il lasciapassare per l’Academy, ora seguiamolo e vediamo dove andiamo a finire.

1917 si pone dunque a chi guarda come un film che non solo è straordinariamente curato tecnicamente ma che desidera essere una mappa atta a offrire un’efficace rappresentazione metaforica del contesto politico contemporaneo. Si incontrano dunque, nell’ultimo film di Mendes, due anime, due identità, entrambe pregne, entrambe ricche di cose da dire ma che si indeboliscono nel momento in cui provano a dialogare, ad amalgamarsi tra loro. E allora, forse, a mente fredda, il vero problema di un film come 1917 è una generale mancanza di equilibrio, che lo porta a non scegliere mai fino in fondo la sua essenza tra blockbuster bellico d’autore sovranazionale e sovratemporale o progetto puramente d’occasione, nato per portare l’Inghilterra ai prossimi Oscar e che quindi non può fare a meno di cedere a determinate scelte narrative e stilistiche (la retorica nazionalista, lo sviluppo epico a tratti superficiale) che non possono mancare in progetti di questo tipo ma che, certamente, fanno storcere il naso ogniqualvolta l’evidente fine ultimo di ingraziarsi la giuria degli Academy finisce per inglobare, letteralmente, il tessuto stilistico e narrativo, portando allo scoperto le escamotage di storytelling più smaccatamente dirette a quello scopo.

Alessio Baronci

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Alessio Baronci

Classe 1992. È laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo alla Sapienza e ha continuato imperterrito ad indagare il mondo delle arti specializzando in Spettacolo, Moda ed Arti Digitali. Folgorato sulla via della celluloide a nove anni, dopo aver visto "Il Gladiatore" di Ridley Scott, da quel momento fagocita film di ogni tipo mosso da due convinzioni: la prima è che tutte le arti sono in comunicazione tra loro e sono influenzate dal contesto culturale in cui nascono; la seconda è che poche forme d’arte hanno un solo significato, la maggior parte nasconde qualcosa di più profondo all'occhio di chi guarda. Scoprire "quel qualcosa", sempre, è uno degli obiettivi della sua vita. Quando sul finire del 2015 fonda “Liberando Prospero”, insieme agli altri membri del primo nucleo, lo fa con l’obiettivo di distruggere e ricostruire da zero il rapporto tra arte e pubblico, utilizzando ogni mezzo necessario allo scopo. Fa parte del team di autori del blog ed è "dramaturg" e performer del collettivo per quanto riguarda il versante delle esibizioni live.

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