La cultura dell’hype: riflessioni a margine di un pensiero dicotomico

La cultura dell’hype: riflessioni a margine di un pensiero dicotomico

Si stima che negli ultimi anni lo spazio di attenzione di un essere umano medio sia sceso a circa 8 secondi. Questo significa che, in media, una persona, uomo o donna che sia, riesce a rimanere concentrato su qualcosa per non più di 8 secondi. Le neuroscienze ci dicono che un comune pesce rosso, ha uno spazio di attenzione di circa 9 secondi, in media.

Questa parentesi neuropsicologica ci conduce direttamente al tema di questa riflessione, ossia l’origine della cultura dell’hype, l’escalation di informazioni e rumors che deflagra poco dignitosamente ormai di frequente all’uscita di nuovi titoli in ambito videoludico (ma non solo) e in cui gioca un ruolo fondamentale il modo in cui siamo abituati a essere sovrastati da troppe informazioni.

Perché viviamo in un mondo che si regge sulle informazioni e su quante di esse è possibile diffondere in maggior numero e in minor tempo possibile. E il nostro cervello, la nostra mente, si stanno naturalmente adattando. La nostra attenzione si sta plasmando sulla durata delle storie di Instagram in un modo non diverso da come talvolta capita di vedere facciano alcuni animali marini come i molluschi che utilizzano gli oggetti di plastica abbandonati in mare come un nuovo guscio. È l’adattamento.

Se la nostra mente si sta adattando a gestire un gran numero di informazioni, è naturale che possa dedicare minore spazio ad ognuna di esse, e questo ci rende molto più esposti a processi di ragionamento veloci e poco precisi, accompagnati da una massiccia stimolazione emotiva da parte dell’industria dell’entertainment che gioca sul sensazionalismo e sul cavalcare l’onda emotiva, l’eccitazione, per qualcosa di incredibile e straordinario che, con altrettanta velocità, si trasforma in qualcosa di brutto e banale, mostrando l’altro lato della stessa medaglia dell’hype, il tutto condito con una visione dicotomica che trasforma gli eroi in mostri in uno schiocco di dita.

“Hype” si traduce come “montatura” nella nostra lingua, e traduce quindi quel tentativo di gonfiare ed esagerare le caratteristiche di qualcosa al fine di vendere. Sì, lo scopo dell’hype è quello della vendita, dell’incasso. Non della qualità e non della longevità di un’opera.

Questo meccanismo a doppio taglio ha recentemente colpito in pieno uno dei titoli più attesi dell’anno (se non degli ultimi anni, 8 per la precisione), ovvero Cyberpunk 2077 di CD Projekt RED.

Come suggerisce il nome, parliamo di un gioco RPG con un’ambientazione appunto cyberpunk, in cui giocare nei panni del nostro personaggio in una tentacolare Night City, metropoli futuristica che sulla carta prevede un livello di immersione e di profondità davvero notevole, con una intelligenza artificiale e una variabilità dei comportamenti dei personaggi estremamente sviluppata, un impatto visivo incredibile e un livello di cura nei dettagli e nella sceneggiatura eccellenti. Inoltre, questo titolo avrebbe dovuto girare “sorprendentemente bene” sulle console che sono da poco passate a essere della precedente generazione.

Sorvolando sulle qualità del titolo di CD Projekt RED, possiamo dire che però le promesse fatte sono state rispettate solo in parte, e questa parte non è necessariamente superiore a quelle non mantenute.

Ciò che ha scatenato la polemica a livello mediatico è stata soprattutto la mole di bug, errori e mancanze che, almeno nei primi giorni, rendeva il gioco addirittura ingiocabile per chi ne stesse godendo su un hardware più datato. L’immersività tanto pubblicizzata era, nel migliore dei casi, solo a livello visivo e solo su pc, mostrando tuttavia l’assenza di moltissime caratteristiche promesse. E un mondo molto bello da vedere, ma in cui non puoi toccare quasi nulla, non è immersivo, è solo appagante per gli occhi.

Le polemiche, l’ironia del web e la delusione di moltissimi che avevano anche preordinato il gioco, ha portato nel giro di pochi giorni, ad un crollo in borsa di oltre il 40%, la rimozione del titolo dal PlayStation Store e un’ondata di rimborsi che ha iniziato a mettere, se non in ginocchio finanziariamente, quantomeno a dura difficoltà la software house polacca che ha intravisto per la prima volta lo spettro del fallimento dietro l’angolo.

Attualmente si stima che il gioco abbia venduto l’impressionante numero di 13 milioni di copie a livello mondiale, e una tale diffusione aiuta a comprendere facilmente il rumore generato da questa caduta.

La software house è corsa subito ai ripari promettendo, e pubblicando abbastanza tempestivamente, patch che potessero, almeno in parte, rimediare al disastro, che non pare essere del tutto scampato, dato che in questi giorni è partita la prima class action contro CD Projekt RED negli USA.

È piuttosto facile notare delle analogie con un altro lancio che si rivelò un potente boomerang negli anni precedenti: No Man’s Sky. L’open world ambientato in un universo procedurale di Hello Games subì una sorte molto simile. Al lancio mancavano moltissime caratteristiche che erano state promesse al pubblico e questo generò una forte delusione che portò rapidamente il titolo a essere sbeffeggiato come un “simulatore di solitudine” e a mettere in seria difficoltà i suoi creatori. Il caso di No Man’s Sky è interessante anche per un’altra ragione tuttavia, ovvero la sua redenzione. Hello Games nel 2016 si è cosparsa il capo di cenere e ha avviato uno dei più mastodontici sforzi di rendere migliore il suo titolo, di ripagare la fiducia che molti avevano riposto in essa, introducendo contenuti aggiuntivi sempre gratuiti che hanno reso ad oggi No Man’s Sky un piccolo gioiello, quello che doveva essere 4 anni fa, ripristinando fiducia in Hello Games e ricevendo il plauso da una community che è sempre più solidamente affezionata a questo titolo e alla sua particolarità. Un vero e proprio cammino di redenzione con un lieto fine, che pare a questo punto essere l’unica strada percorribile da CD Projekt RED.

Destino simile era toccato a Fallout 76 nel 2018, con un lancio che aveva lasciato molta perplessità alla fanbase e aveva deluso i tanti che avevano trovato nel gioco di Bethesda un mondo spoglio riempito solo di micro-transazioni per mungere denaro. Fortunatamente anche in questo caso, l’impegno nel rimediare agli errori si è mostrato nella pubblicazione di corposi contenuti aggiuntivi che hanno modificato sensibilmente l’esperienza dei giocatori che hanno ammorbidito le loro critiche e rendono Fallout 76 un gioco più godibile, seppur lontano dallo spessore dei capitoli precedenti.

Nel caso di Cyberpunk 2077, le aspettative subivano un effetto moltiplicativo a causa della fiducia riposta nella software house, che aveva in precedenza pubblicato i fortunati capitoli della serie The Witcher, e che aveva abituato il pubblico ad una particolare attenzione e riguardo nel proporre ricchi contenuti curati nei minimi dettagli. Ciò che è venuto meno con l’esperienza di Cyberpunk 2077 è stata proprio la fiducia nella software house tuttavia, il cui comportamento dolosamente ambiguo circa le prestazioni su console e sull’assenza di feature promesse e poi tristemente assenti ha trasformato rapidamente le aspettative riposte in un campione dell’industria del gaming in delusione di fronte ad un comportamento deliberatamente scorretto, che ha purtroppo adombrato le indubbie qualità di questo titolo. Del resto CD Projekt RED ha ammesso di non aver mai mostrato immagini del gioco su console in nessun momento precedente al lancio, utilizzando solo materiale eseguito su pc, un triste episodio di come la sezione marketing, reale colpevole della vicenda a livello aziendale, vivesse in una dimensione tutta sua rispetto a chi a questo prodotto stava lavorando.

Sono emerse nei mesi scorsi diverse polemiche sulle politiche di crunch dell’azienda, che per non dover ulteriormente rimandare il gioco, la cui pubblicazione più volte è slittata nel corso di quest’anno, hanno costretto gli sviluppatori (eroi incompresi e vittime di questa storia) a lavorare con turni massacranti sotto la pressione di un pubblico accalcato alla loro porta e in ansimante attesa di mettere le mani sulla loro ultima creazione.

No Man’s Sky, Fallout 76, Cyberpunk 2077 e moltissimi altri titoli condividono tutti un’uscita sul mercato incompleta, funestata dagli effetti di una produzione frettolosa, sommaria, che ha mostrato come produzioni di questa dimensione necessitassero di maggiore tempo, ma nel nome di un horror vacui mediatico da evitare, dovevano a tutti i costi occupare più terreno possibile in un’industria che ricordiamo aver superato come fatturato quella dell’intrattenimento cinematografico.

L’importante è che se ne parli, che si montino le aspettative e che i clienti comprino, poi se il prodotto è incompleto, non importa. Questa logica, apparentemente miope e che non tiene conto della memoria del giocatore, ha invece tristemente senso. Un pubblico confusamente riempito di uscite, titoli, features, numeri altisonanti, è un pubblico poco consapevole, con poca memoria, e con poca attenzione e capacità di riflessione prima di un acquisto. La cultura dell’hype è esattamente questo, caricare di entusiasmo, promettere l’impossibile, vendere, fare il botto, e poi dimenticare tutto.

L’importante è riempire il vuoto, l’importante è che ci sia rumore e che come falene verso la luce di un neon, milioni di persone aprano il portafogli con gli occhi sognanti, salvo poi risvegliarsi arrostiti. Siamo al bipolarismo di un’industria che promette meraviglie (molto poco) incredibili e che incontra poi la furia dei fan, del suo pubblico che si ritrova tra le mani qualcosa di incompleto, frustrante e spoglio.

Tanto più crediamo in qualcosa, abbiamo aspettative, tanto più quando ci delude, l’amarezza è intensa. In molti credevano che CD Projekt RED fosse immune dagli aspetti più tossici di questa industria, ma a quanto pare il talento non è stato sufficiente dallo scivolare nelle sabbie mobili delle aspettative gigantesche, alimentate da loro stessi, in cui lentamente sono andati a intrappolarsi.

La cultura dell’hype produce un ciclo di fretta, aspettative, delusione, rabbia, e nuove aspettative, alimentando un sistema rumoroso e saturo dove diventa sempre più difficile allineare marketing emozionale e tempistiche adeguate alle dimensioni di questi titoli, in cui ogni promessa fatta al pubblico diventa una ulteriore giro di corda che costringe a ritmi folli ed errori di valutazione che possono risultare fatali.

La responsabilità di questo clima di pressione, domanda e aspettative gonfiate è molto probabilmente condivisa. Da un lato abbiamo il marketing delle aziende che sa bene come innescare e cavalcare le emozioni, e che con spregiudicatezza spara molto in alto per arrivare a stimolare interesse e curiosità nel potenziale videogiocatore. Dall’altra parte troviamo un pubblico poco consapevole, poco attento e quindi facilmente preda di chi vuole vendere qualsiasi cosa e preda di sé stesso, delle proprie aspettative fuori scala e della propria impazienza acquisita.

La domanda con cui possiamo lasciarci al termine di questa riflessione potrebbe essere quindi, se sia possibile un altro tipo di cultura, un altro approccio al videogioco che non inneschi questo tipo di dinamiche distruttive dove vanno a rimetterci i videogiocatori e chi in quelle opere ha impresso il marchio del proprio indubbio talento, pur sommerso da difetti indotti da una catena produttiva (quasi) insostenibile.

La risposta, a parere di chi scrive, è più profonda di quanto si possa immaginare. Ha a che fare con il recuperare la capacità di dare tempo allo sviluppo delle cose, non solo dei videogiochi. Le software house devono prendere consapevolezza degli effetti delle loro politiche di marketing scollate dalla realtà e comprendere che avere fretta è profondamente diverso dall’essere rapidi. La risposta è dunque più ampia del solo mondo videoludico, ed ha a che fare con l’evoluzione della nostra stessa società che sembra imperniarsi sull’evitare l’horror vacui, silenzio da riempire con un flusso costante e copioso di informazioni, proiezioni future, anticipazioni, leak, indiscrezioni, profezie e magie più o meno verosimili e stimoli incessanti, qualcosa che farcisca costantemente quel risicato spazio di attenzione e non ci faccia annoiare mai.

Nel 2000 lo span di attenzione medio era di 12 secondi, all’inizio degli anni ’90 era di circa 20. Se nel 2077 non vorremo arrivare in prossimità dello 0, potrebbe essere l’occasione di iniziare a comprendere come il tempo che concediamo alle cose per diventare qualcosa di compiuto è ciò che da loro valore e che le rende uniche. Possiamo approfittare dello schianto di CD Projekt RED per imparare che le promesse hanno ancora un valore per il pubblico e che forse, dopotutto, per emozionarci sinceramente di fronte ad un’opera, abbiamo ancora bisogno di quel silenzio che precede, per un attimo, l’inizio dello spettacolo

Federico Diano

Nato a Roma, classe ’92. Psicologo. Chitarrista. Gamer. Sincero esploratore di qualsiasi cosa trasmetta delle emozioni e sappia raccontare una storia. Convinto sostenitore che il rock and roll sia in grado di morire e risorgere. Divide la sua vita in prima e dopo aver inserito a 15 anni, per sbaglio, un best-off dei Led Zeppelin nello stereo. Entusiasta collaboratore per gli amici di “Liberando Prospero” dal 2018, in particolare per ciò che è legato alla musica e al videogioco, del quale sostiene e difende la piena maturità e dignità artistica

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